In un giorno di pioggia come questo

C’è stato un momento di svolta in questo angolo di universo, uno di quei momenti che cambiano la storia del mondo per sempre. Un momento per il quale un universo oscuro e silenzioso ha lavorato per 10 miliardi di anni nel tentativo di produrre una coscienza, un essere vivente che fosse in grado di restituirgli la sensazione di se, i colori che lui, l’universo, non era in grado di vedere, i suoni che lui, sempre l’universo, non era in grado di sentire. C’è stato un momento in cui tutto era ancora buio e silenzioso, e un attimo, immediatamente successivo, nel quale un essere ha attivato l’equivalente di un occhio, l’equivalente di un orecchio, e in quell’attimo l’universo si è acceso, per la prima volta in dieci miliardi di anni, in quell’attimo ha cominciato a comunicare.
Nessuno può dire, e potrà dire mai, quando questo sia accaduto, nessuno, per quanto la nostra capacità di scavare nel passato possa nel tempo diventare precisa e accurata, sarà mai in grado di ripercorrere il tempo al contrario fino a quel preciso istante.
Per questo sono sicuro che nessuno potrà contraddirmi se sostengo che io, per conto mio, sono certo che quel momento, quell’istante fatale, quell’attimo di svolta sia avvenuto in un giorno di pioggia come questo.

Il cisto

Il cisto

Nel mio grande amore per la natura devo ammettere di essere un padre ingiusto. Sono infatti uno di quelli che preferiscono un figlio all’altro, che nutrono un amore diseguale che li porta a guardare l’uno con occhi diversi dall’altro. Pur amando tanto gli animali devo infatti dire che sono le piante i miei esseri viventi preferiti e fra di loro ce ne sono alcune che suscitano in me una particolare simpatia. Fra queste un posto speciale lo ha il cisto. Nel nostro vizio di umanizzare sempre tutte le creature ogni volta che vedo il cisto fiorito in tutta la sua sgualcita bellezza, non posso fare a meno di pensarlo come uno di quei ragazzi un po’ sciatti e un po’ fricchettoni che al mattino, con voce impastata e appena alzati dal letto, dicono: “e niente…ieri sera ho fatto un po’ di baldoria…e sono andato a letto vestito”

Strategie riproduttive

Strategie riproduttive

Sono tanti gli errori di percezione di noi esseri umani. Molto comuni quelli che riguardano gli altri esseri viventi che, volenti o nolenti, ci accompagnano in questo lungo viaggio spaziale a bordo della nostra navicella solare chiamata “Terra”. Uno degli errori più classici è quello di pensare, per esempio, che le piante siano esseri passivi, completamente sottomessi agli animali e agli uomini, esseri per nulla reattivi e immobili per definizione. Non a caso quando vogliamo descrivere uno di noi privo delle caratteristiche tipiche di reattività e mobilità degli uomini lo descriviamo come un “vegetale”, diciamo che “vegeta”. Nulla di più sbagliato naturalmente. Ciò che ci induce in questo errore, oltre alla nostra umana insensibilità (e dire che ci riteniamo così sensibili!), è il pensare che le piante vivano all’interno dello stesso nostro flusso temporale mentre invece il tempo per loro scorre in maniera diversa da noi e questa è certamente una differenza fondamentale. Questo non vuol dire d’altra parte che alle piante (o agli animali) debbano essere attribuite emozioni o sentimenti umani (esiste anche questa deriva), bisogna piuttosto cominciare a pensarle come esseri viventi molto diversi da noi e per certi versi simili. Con noi per esempio condividono la stessa spinta riproduttiva, lo stesso irrefrenabile stimolo a perpetuare la specie e a propagarsi, quanto più è possibile, in giro per il pianeta. E per questo si sono tirate fuori tutta una serie di strategie incredibili, sicuramente consone ad esseri viventi che per lo più stanno con le radici ben piantate per terra, ma che non per questo sono meno capaci di mandare in giro i loro veicoli riproduttivi dimostrandosi così più esseri capaci di manipolazione che esseri manipolabili. La loro antichissima relazione con gli insetti (che per questo sono definiti con un termine per me bellissimo che è: pronubi), le loro affascinanti modalità di dare vita a semi in grado di sfruttare il vento, la loro capacità di produrre deliziosi frutti lassativi quel tanto che basta e con all’interno semi non danneggiabili da animali golosi e che usano questi per farsi portare qui e là e farsi alla fine depositare già fertilizzati. Oppure la meravigliosa strategia delle querce che sono addirittura riuscite a manipolare una specie di uccelli come le ghiandaie che per l’appunto di lavoro fanno quello, raccolgono ghiande, le piantano in decine di depositi e poi di inverno le recuperano per mangiarle: quel 5 per cento di ghiande che non riusciranno a trovare (neanche le ghiandaie sono sceme!) daranno vita ad altrettanti alberi. Michael Pollan nel suo bellissimo “la botanica del desiderio” arriva addirittura a teorizzare che le piante siano in grado di manipolare anche noi uomini mettendo in campo strategie che abbiano a che fare con i nostri bisogni o i nostri desideri e che determinino il loro successo riproduttivo. Nel libro racconta come secondo lui il melo, la patata, il tulipano e alcune varietà di cannabis siano riuscite nel loro scopo proprio attraverso questo tipo di manipolazione. Devo dire però che da parte mia una simpatia particolare va a quelle piante capaci di propagarsi in maniera adeguata ai loro fabbisogni non “usando” animali o uomini ma facendosi forti di loro conoscenze fisiche e specificatamente di nozioni ambientalmente apprese e geneticamente fissate che riguardano il campo dell’idrostatica. Il melone asinino per esempio. Si tratta di una pianta strisciante dalle foglie e steli setolosi che cresce sulle ripe terrose non lontane dal mare. Inesperti escursionisti ne avranno certamente fatto le spese. La pianta che ha dei frutti che somigliano appunto a minuscoli meloni accumula proprio in essi una notevole quantità di liquidi che determinano una significativa pressione idrostatica. Basta sfiorare il frutto maturo per causare l’esplosione dello stesso che non ha come obiettivo quello di produrre lividi sulle gambe delle persone ma quello di distribuire il seme il più lontano possibile. Una strategia simile utilizza anche il mio glicine anche se in questo caso il sistema funziona al contrario: il baccello comincia a seccarsi fino a quando proprio per un difetto idrico non esplode distribuendo in giro i semi che somigliano a tante pastiglie di cioccolata droste. E oggi in questa inquietante mattina di scirocco di febbraio ero immerso in una sorta di sparatoria continua prodotta dall’inarrestabile esplodere di baccelli. Peccato però che anche le strategie più raffinate non tengano conto della possibilità di diventare, nel tempo, inattuali ed obsolete. Il mio glicine non sa infatti, per testardaggine genetica, che noi uomini, nel nostro essere troppo dinamici abbiamo prodotto un fenomeno che si chiama “cambiamento climatico” e che questo scirocco inaudito è solo una presa in giro e che domani tornerà il freddo e che il seme così abilmente sparpagliato sarà solo seme sprecato. Sono certo, per questo, che quando verranno gli extraterrestri e ci processeranno per tutti i nostri crimini contro la natura il mio glicine si costituirà parte civile.

Dune

Dune

“Saper leggere il libro del mondo con parole cangianti e nessuna scrittura” scrive Fabrizio De André in Khorakhané. Non dovrebbe essere il nostro compito? Volare un po’ più in alto della pena del giorno e provare ad interpretare il linguaggio dell’universo e, lì dove si posa, il dialetto. Fra lo zero assoluto e la temperatura di Plank, ma così vicini al primo, succede un fatto straordinario, in un universo che dal momento in cui esiste, un secondo dopo il Big bang, non fa altro che scivolare verso il disordine, lungo la china entropica, arriva una cosa assurda ed improbabile come la vita. Tutto ambisce ad un disordine senza futuro e lei invece no, senza alcuna possibilità di successo, lei prova ad invertire il verso, cerca di andare in direzione opposta. Disordinatamente gli uomini, coloro ai quali l’universo attribuisce il compito della sua stessa narrazione, in maniera un po’ più ordinata gli animali, assai più disciplinate le piante. Tutti comunque a tentare ciò che la termodinamica non consente, quello che una divinità caotica non permette, ciò che è contrario alle leggi di questo angolo di universo: risalire la china entropica, anche solo per un poco.

In questo lasso termico così risicato, in questo frammento a forma di pianeta c’è un fenomeno che più di tutti amo, e che più di ogni altro, secondo me, rappresenta, in forma associata, questo tentativo di andare contro quella corrente che porta, spietata, al nulla cosmico: queste sono le dune.

Su questo nostro pianeta accade un fatto incredibile, qualche cosa che va ben oltre il miracolo. Le piante in associazione con alcuni cicli, che del pianeta vivente costituiscono la disciplina, decidono di invertire il senso. Alla supremazia distruttiva del mare, alla connivenza del vento con l’entropia, contrappongono un fare corpuscolare che senza speranza alcuna propone un alternativa al caos: l’avanzare della terra. Il vento e il mare corrodono, erodono, spingono al disordine, le dune si oppongono, avanzano, al vuoto rispondono con il pieno, al nulla con il futuro.

Perché non esistono santuari dove si contemplano le dune? Perché non esistono cerimonie dove, fra canti sublimi e profumi di incenso, uomini coperti da sacri paramenti celebrano il miracolo delle dune? Perché non ci sono sacerdoti che durante le loro omelie paragonano il messaggio di Cristo alla creazione di una duna, entrambi tesi a proporre una buona novella che per la prima volta nella storia di questo universo racconta di qualcuno o qualcosa che propone una storia nuova: non più soltanto morte, troppo facile da dare, ma vita da contrapporre ad essa. E infine, perché nessuno immagina un “angelo delle dune” un essere alato che ci sussurri all’orecchio un canto di speranza dove semi, sabbia e vento si uniscono, una poesia (mi perdoni De André) che reciti: “La duna oggi ci ha insegnato,

In quell’ora di magia,

Inopinata fioritura

Inopinata fioritura

Ci sono esseri che vivono nel tempo, altri che vivono il tempo.

I primi sono quelli che subiscono ed interpretano in maniera errata le informazioni che gli giungono dal tempo atmosferico, dal meteo.

Essi non sono dotati di sistemi, o nel tempo li hanno perduti, che gli consentano una lettura complessiva e analitica delle informazioni dalle quali sono raggiunti. Percepiscono un flusso frammentato e contingente che arriva dall’oggi meteorologico nel quale sono immersi e a questo reagiscono producendo delle azioni e delle idee sdrucciole e fallaci: prendere l’ombrello, copririsi di più, dire “questo inverno mi sembra più freddo del precedente…ho la sensazione che la stagione quest’anno sia stata più piovosa”.

Questi sono gli uomini, questo sono io. E questa inconsapevolezza è inevitabilmente metafora d’altro.

Poi ci sono gli altri, gli esseri che vivono il tempo e come tali non si preoccupano del meteo ma si relazionano e reagiscono al clima.

Essi si aprono a stella nei confronti di un flusso sottilissimo ma ininterrotto di informazioni, di stimoli, di sollecitazioni che giungono senza sosta dal cuore, dal cervello, dai polmoni del nostro pianeta.

A questo flusso reagiscono con azioni composte e conseguenti, dando risposte coerenti e definitive che però risultano spesso ineffabili ed inconcepibili per gli esseri umani.

A questa condizione, credo, questi ultimi dovrebbero restituirsi.

Così in una mattina di metà gennaio, lungo la strada che porta a lavoro, incontro questa mimosa che mi sembra “inopinatamente fiorita”. E’ da questo incontro che nasce questa riflessione.

L’autorizzazione

L’autorizzazione

John Muir nel suo “La mia prima estate sulla Sierra” racconta di un pomeriggio nel quale si avventura sul bordo di una cascata per guardare di sotto. Non può farlo senza esporsi, non può farlo senza correre un rischio. Basterebbe un piede in fallo, la superficie della roccia resa viscida dall’acqua e il rischio di finire di sotto e morire diventerebbe concreto. Eppure John Muir lo fa, si espone. Lui stesso dice di non avere alternativa se vuole veramente entrare in contatto con il mondo selvaggio, se vuole veramente sentire il boato emesso dalla cascata nel salto, se vuole godere del leggero aerosol prodotto dall’incontro fra l’aria e l’acqua polverizzata che si deposita sul suo viso.

Ieri ho visto le immagini e i video che i miei amici Fabio e Giancarlo hanno condiviso dopo una domenica trascorsa in cima al nostro vulcano. Anche li si vede come per godere della vista dell’interno dei crateri sia necessario spingersi sul bordo, sia necessario porre in qualche modo a rischio se stessi, mettersi in discussione, concedere spazio ad “altro”, fare un passo avanti verso il pianeta che in realtà consiste in un passo in dietro rispetto a noi stessi. Ho visto anche l’espressione dei loro volti. E’ un espressione che conosco bene. Una gioia silenziosa, un sorriso riservato, quasi timido di chi sente crescere dentro un significato che sa già di potere condividere con pochi e mai attraverso l’uso di tante parole.

Oggi con il Piccolo in macchina alla ricerca continua di argomenti che superino in qualche modo l’intensità delle sollecitazioni che un bimbo della sua generazione subisce continuamente e che lo porterebbero, fosse per lui, a parlare continuamente di video e giochi elettronici (cito testuale sua affermazione di oggi conseguente a specifici e recenti studi scolastici: “Papà io credo che le fonti visive siano molto più interessanti di quelle orali…”). Mi tiro fuori la mia antica esperienza in Malesia. Contestualizzo: la spedizione scientifica, i tre mesi fra Borneo e arcipelaghi della penisola della Malacca, le attività di costruzione della torre di avvistamento ornitologica nella giungla del Borneo (mi raccomando Francesco cerca sempre riferimenti a “fonti visive” del Piccolo se vuoi colpirlo e interessarlo!) durante le quali ho vissuto come quelli del programma “Nudi e Crudi”, il mese sull’isola deserta al sud del mare della Cina (c’era solo una grande casa da pesca…esatto, proprio come quella che abbiamo visto l’altra volta nel documentario su Discovery Chanel) e poi, nel mezzo, un mese nuovamente a Sarawak a fare ricerca speleologica. E li il racconto. “Ho fatto questa spedizione con Giulia…ti ricordi Giulia? Cercavamo grotte nuove perse nella giungla. Ogni volta che ne trovavamo una facevamo il rilievo topografico…che vuol dire fare la mappa. Un giorno, dopo qualche tempo che non pioveva, siamo passati da una grotta che era sempre sommersa e quel giorno non lo era completamente e allora abbiamo deciso di esplorarla e rilevarla. Eravamo in quattro, la grotta era una specie di tubo forse di un metro di diametro e quasi completamente piena d’acqua. Ci siamo immersi. Uno davanti con la rollina metrica…si, il metro quello con cui giochi sempre…gli altri tre dietro, uno con la bussola, uno a scrivere i dati su una tavoletta che si può usare anche in acqua e l’altro a tenere l’altra estremità della rollina. Primi 50 metri di tunnel tutto bene. Forse 30 centimetri di spazio per respirare…le lampade ad acetilene che immerse nell’acqua danno un po’ di problemi…ma tutto bene. Una curva, altri 50 metri…tutto a posto. Un’altra curva. A metà di questo altro tratto di tunnel (papà cosa è un tratto?…questa parte del tunnel…ah va bene…) chi va avanti improvvisamente lancia un urlo. Alla luce delle nostre lampade che si spengono in continuazione vediamo su una cengia (cosa è una cengia? E’ una sporgenza…) il serpente più grosso che abbia mai visto in vita mia. Ci blocchiamo…è un secondo…quello ci guarda e si cala in acqua…l’acqua dove siamo noi…l’acqua fangosa nella quale non si vede ad un centimetro…le lampade si spengono tutte assieme. Qualche secondo per riaccenderle…Cecio io ricordo che, immerso in acqua quasi del tutto, sentivo il sudore colare dalla mia fronte”. “Avevi paura papà?”. “Si Cecio, forse un poco, ma ero anche felice, felice come sarei stato altre, poche, volte in vita mia” (Giulia ma le cose sono andate proprio così? Oppure la mia memoria ha trasformato il ricordo?). Da li fino a scuola abbiamo parlato solo di animali.

David Le Breton nel suo “sociologia del rischio” prova a dare una risposta alla domanda “perché amiamo il rischio?” e perché soprattutto nel nostro tempo assistiamo al continuo nascere di tutta una serie di “Challenge” (si chiamano così) da parte dei giovani, molte delle quali mettono in pericolo la loro stessa vita. Le Breton, con la lucidità e capacità narrativa che ne fanno uno dei miei saggisti preferiti, recupera nel tempo concetti come quello dell’ordalia o del giudizio di dio, e analizza pratiche più recenti come quelle dei voli con la tuta alare, per provare a trovare significati a qualche cosa che ci riguarda fin dagli albori della nostra specie.

Una volta tanto però mi sembra che qualche cosa nella sua analisi manchi. Io infatti credo, come John Muir, che il rischio non è altro che il pedaggio che il pianeta ci richiede per entrare in relazione con lui, il pedaggio che alcuni di noi pagano volentieri e che finiscono per considerare una sorta di rinnovo dell’autorizzazione a potere vivere, parte di questo pianeta, su questo pianeta

22 settembre 2020, ore 15,30

22 settembre 2020, ore 15,30

Il tempo conosce il tempo, ed anche la natura lo conosce. Le prime foglie cadono nelle ore che precedono l’equinozio. Per le 15,30 di oggi vogliono già essere segno per un’umanità distratta.
Felici per il solstizio d’estate che non è altro che il trampolino con il quale ci tuffiamo verso la notte boreale. Inquieti sul confine della rinascita celeste durante quel solstizio d’inverno che in pochi oramai celebrano per quello che è: il sole che smette di immergersi ogni giorno di più, ogni giorno più presto, oltre quell’orizzonte di cui non riconosciamo il confine.
Scambiamo la morte per rinascita, la rinascita per morte. E il tempo ci è nemico e la sua lettura è sempre alterata dal pensarci vecchi di 50, 60 o 70 anni e mai antichi di 10 miliardi e 50, 60, 70 anni.
E quando ci troviamo sull’orlo dell’autunno siamo colti da una sensazione ancestrale: “perché l’autunno è così triste…perché l’autunno genera in me tanta nostalgia…perché?”. Lontani dalla matrice, sconnessi dal flusso nel quale siamo stati immersi da almeno 300.000 anni e che siamo stati capaci di dimenticare in soli due secoli di inurbamento, non comprendiamo neanche, e soprattutto, il senso di questo evento solstiziale che urla in silenzio, che ci dice che nella discesa cosmica intrapresa con il solstizio d’estate fino ad oggi avevamo la consolazione di giorni un po’ più lunghi delle notti ma che da oggi questo rapporto si inverte. Che ci dice che da domani, nella disperazione primitiva che coglie colui che percepisce un sole sempre più debole senza più nemmeno la certezza che domani ricomparirà sull’orizzonte, rischiamo di entrare a fare parte della schiera crepuscolare del “popolo dell’autunno”. Che ci dice che è facile e perfino consolante ritornare nei campi con le bestie selvagge, ritornare nell’acqua con il barracuda, riprendere in mano la zampa calda del gorilla. Che ci impone un giogo oppressi dal quale sarà difficile ricordare quella notte di migliaia di anni fa nella quale ci siamo svegliati in una grotta e mentre dormivano abbiamo guardato la nostra compagna, i nostri figli e abbiamo capito che un giorno sarebbero scomparsi per sempre. Quella notte in cui per la prima volta ci siamo resi conto di essere umani e abbiamo pianto.
Sarà arduo, soprattutto in questo tempo così difficile ed incerto, mantenere vivo questo ricordo durante la sera autunnale e la notte invernale ma se ci riusciremo, nutrendo dentro di noi la pietà e la misericordia, di sicuro saremo ancora capaci domani di “risparmiare gli altri per i benefici più complessi e più misteriosi dell’amore”.
(Foto di Zaccheo Picciotto)

Il triangolo

Il triangolo

C’è una ghiandaia che arriva qui sulla costa da chissà quale querceta dell’entroterra. Ha posto anni fa un’ipoteca sul leccio nato da una ghianda pantesca e che adesso trionfa e copre gran parte del patio. Ogni mattina arriva dalla sua sconosciuta abitazione per rivendicare il privilegio e controllare la sua proprietà gracchiando poche volte con la discrezione e l’autorevolezza di chi vanta un diritto che nessuno può mettere in discussione. Aspetta il tempo in cui le ghiande saranno mature e dopo pianterà boschi. Continua a leggere “Il triangolo”

La prima famiglia

La prima famiglia

La famiglia antica, la mia prima famiglia è andata via. Agirandomi nell’orto in questi giorni avevo avuto la sensazione che ci fosse troppo poco movimento agli ingressi dell’arnia. Oggi mi sono deciso ad aprirla e semplicemente la famiglia antica era andata via. La ferocissima famiglia che per quanto io potessi coprirmi riusciva ad “azziccarmi” sempre almeno una puntura, si è involata, letteralmente.

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E se gli animali smettessero di morire?

E se gli animali smettessero di morire?

Il post che segue è frutto di una riflessione che in più momenti e forme si è presentato negli ultimi mesi nella mia testa. Una riflessione immatura che proprio per questo ha bisogno di una fase di confronto con chi vorrà prestarsi qui e altrove. Una riflessione immatura che per forza di cose nella sua forma scritta presenterà una punteggiatura fatta più da punti interrogativi che da altro.

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