Di prati e di supermercati

Sono andato presto per quel pezzo di spesa della settimana che facciamo in un supermercato. Il supermercato è dentro un centro commerciale. Se non vado nel primo pomeriggio della domenica mi imbatterò di certo nella coda infinita che riempie la rotonda di Carini per poi sfociare nell’immenso parcheggio del centro commerciale che, seppur così grande, riesce a stento a contenere il flusso immane. In ogni caso, prima che io finisca, il posto è stracolmo di persone. Così ogni domenica. Un’umanità che immagino scelga di passare la sua domenica in uno di questi luoghi e chissà quanti altri giorni alla settimana. Si aggirano in quel posto una domenica dopo l’altra. Immagino che apprezzino contemporaneamente ciò che di quel posto resta sempre uguale, la temperatura: estate e inverno, la luce: notte e giorno, e quello che invece cambia: i prodotti che hanno un andamento stagionale per esempio, gli abiti estivi e quelli invernali, i negozi che cambiano, gli eventi proposti da chi gestisce il posto, una nuova pubblicità, i saldi, una svendita. Sono i figli di una delle svolte evolutive compiute dall’umanità ad un certo punto della sua storia. Abbiamo cominciato a comunicare meglio di chiunque altro alcune migliaia di anni fa (mi sembra suggestiva l’idea di Matt Ridley che nel suo “il gene agile” immagina che il nostro linguaggio fosse linguaggio dei segni prima che delle parole e che anche questo ci abbia portato ad assumere la posizione eretta: avere le mani libere per parlare), poi un altro bivio, circa 15.000 anni fa, quello dell’agricoltura. Non più nomadi, raccoglitori, cacciatori, ma stanziali, agricoltori, allevatori che cominciano a produrre un surplus alimentare di scarsa qualità per le fasce più basse della popolazione che deve sempre crescere per mantenere con alimenti, beni e servizi di qualità le fasce più alte e improduttive (governanti, sacerdoti, soldati). Poi ancora un bivio e ancora una scelta che cambierà il corso della nostra storia. L’accesso, derivante dall’uso di nuove tecnologie, ad una fonte di energia che si è depositata per milioni di anni nel sottosuolo. È proprio da lì che nasce questa nuova “specie”, quella del centro commerciale intendo. Ieri sera ho visto un film strano, di quelli che mi propone il mio amico Vincenzo. Si intitola “il buco”, un film a me assolutamente sconosciuto che parla della scoperta di una realtà che invece conosco molto bene: la grotta del Bifurto, sul Pollino, in Calabria. Il regista sceglie già all’inizio del film di contrapporre due immagini, due idee: nello stesso anno, era il 1961, uno dei fatti che coinvolge maggiormente l’opinione pubblica italiana è la costruzione del Pirellone a Milano, l’ingegno umano che si verticalizza e aspira al cielo, +127 m. Nello stesso anno un gruppo di speleologi piemontesi scopre l’abisso del Bifurto, allora la terza grotta più profonda del mondo, -683 m. È in quel tempo che evidentemente abbiamo deciso a quale molteplicità volevamo rivolgere la nostra attenzione, se quella da noi prodotta, materiale, consumabile, “possedibile”, oppure la molteplicità della natura, quella che si esprime attraverso le ere e le stagioni, quella che si mantiene uguale e sempre diversa, quella che non ci appartiene pur essendo profondamente nostra visto che è la matrice stessa del nostro essere, quella che non si prende ma si contempla.
Quelle persone stasera in quel centro commerciale non andavano in giro in maniera molto diversa da come faccio io ogni volta che torno su un prato, in una gola, in una grotta, in un bosco. Solo che la molteplicità che loro hanno deciso di ammirare, desiderare, comprare non corrisponde a quella che io ho deciso di contemplare. Le loro marche, la varietà dei prodotti che li appassiona, il continuo succedersi sugli scaffali di beni di consumo che sono sempre migliori del precedente, nulla hanno a che fare con l’alternarsi dei colori di un bosco durante le stagioni, dei profumi che si inseguono anche nello stesso luogo nel dipanarsi di un anno, con la luce che cambia nello scorrere del giorno, con i venti che giungono da diversi quadranti, con la pioggia che mi bagna, il sole che mi riscalda le mani in una mattina fredda. Loro sono maggioranza, una maggioranza che sta corrodendo, togliendo spazio al mio mondo. Io sono minoranza e li guardo e li ascolto preoccupato.

Solo questo adesso voglio sapere

Solo questo adesso voglio sapere

Adesso so che il Presidente era lì. Me lo ha raccontato Ezio Mauro nel suo editoriale di oggi dicendo che era “solo, come se venisse da un altro Paese e da un’altra stagione della democrazia”. Forse questa frase perfetta è stata anche l’unica inesattezza del suo articolo, in realtà non era solo, c’era con lui il Prefetto. Che altro vorrei sapere? Chi altri è andato e chi non è andato? Forse è importante ma per la verità non mi interessa molto. Quante ore sono passate fra la prima segnalazione e il momento della tragedia? Questo di sicuro è importante ma non per me adesso. Se ci sono, delle responsabilità? Se si poteva fare di più? Se qualcuno ha detto cose che non avrebbe dovuto dire? Immagino che anche avere risposte a queste domande sia una cosa importante ma sono cose che spero sapremo dopo e che adesso non voglio sapere.Altre cose vorrei sapere e non saprò mai. Ad altre domande vorrei trovare una risposta che sono certo non troverò. Vorrei che in tanti in questo secondo come me si chiedessero: chi ha disposto con ordine meticoloso le corone di fiori sulle bare? E chi le ha composte? Il fioraio che le ha create sapeva per chi le stava facendo e cosa stava pensando mentre le faceva? Come si chiama chi ha firmato il mandato di pagamento per quelle corone e per quelle bare? Chi ha deposto i peluche, i giocattoli, accanto alle bare bianche dei bambini? Chi ha steso a perfezione la passatoia azzurra che corre parallela alle bare? E chi ha pulito con cura meticolosa ed evidente il palazzetto dello sport nel quale quelle bare sono state accolte? Vorrei conoscere il nome e cognome di quei pochi, fuori da quel palazzetto che all’arrivo del Presidente, hanno detto quasi sommessamente (ché nessuno mai potrà dire che quello era gridare), quasi con vergogna: “giustizia…giustizia”?Questo vorrei sapere oggi. Perché degli Eroi non mi importa, ché non mi sembra che davanti a tanto dolore ci sia spazio per la retorica degli eroi, ché davanti a tanto dolore un’unica figura canuta e un po’ ingobbita risponde con un commovente e disperato slancio verticale all’assoluta orizzontalità dei morti e tanto basta. Perché non mi importa dei Mostri, ché nemmeno per quelli c’è spazio visto che come sempre ad agire sono invece solo piccoli carnefici volonterosi, ligi esecutori del più banale dei mali. Stasera mi importa solo di quelli che hanno fatto bene un piccolo lavoro, che hanno compiuto in piena consapevolezza una piccola azione, ché se avessero capito che quello che era stato loro chiesto di fare non era buono, non era giusto, avrebbero certamente risposto “no”. Di questi esseri umani voglio sapere stasera, voglio conoscere i loro nomi, il resto per oggi non mi interessa.

Editoriale

Bisogna leggere l’editoriale su Repubblica di oggi di Ezio Mauro che racconta della visita a Crotone del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Un pezzo di giornalismo che lascia il segno, dove ogni parola è scelta con una cura che solo un dolore lucido può produrre. Ne riporto un’estratto.”Ha sostato in silenzio nel Palasport trasformato in camera ardente, ha incontrato in ospedale i sei bambini superstiti, ha ascoltato le voci dei familiari che chiedono aiuto per rimpatriare le salme. Solo, come se venisse da un altro Paese e da un’altra stagione della democrazia, il Capo dello Stato ha voluto comunque testimoniare il vincolo umano e morale, dunque politico, che lega il benessere democratico in cui vive la nostra popolazione con la dannazione di chi scappa dalla guerra e dalla miseria: cercando nella sponda europea della libertà l’unica speranza di futuro per i suoi figli.Per la fisionomia etica della Repubblica non ha nessuna importanza che questo sentimento sia finito in minoranza, dimenticando la civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri, o almeno che non trovi rappresentanza nella cultura politica oggi dominante, e sembri divenuto estraneo alle istituzioni. Nella vicenda del nostro Paese c’è una tradizione di ideali e di storia, di coscienza dei doveri e di emozioni collettive che forma il deposito morale della cittadinanza e diventa la sua espressione civile, l’ancoraggio di cui deve tener conto chi fa le leggi, chi impersona il legittimo potere pubblico, chi rappresenta lo Stato, che non è neutro e indifferente ai valori”.

Stupore

Lo so che è complesso da capire, è complesso anche per me figuriamoci per che mi legge. Eppure alcune volte, in questo tempo che ormai mi sfugge, riesco a stupirmi di stupirmi. Proprio così: mi stupisco del mio stupore. E che ci crediate o no questo è ancora un buon segno. E stamattina in macchina alle 9, come sempre su Radio Margherita (chi mi conosce sa perché ascolto praticamente solo musica italiana, a chi non mi conosce magari qualche volta gli spiegherò perché), notiziario nazionale. Nei secondi che precedono l’inizio, nelle ore che hanno seguito l’alba, nelle ore che l’hanno preceduta, la mia mente ai bambini, alle donne, agli uomini di Cutro. A quei quarantacinque (per adesso sappiamo che sono tanti) che devono avere riempito la spiaggia, che devono avere ricoperto la spiaggia, cosparsi sulla spiaggia. In quei secondi che precedono il notiziario, con il cuore trafitto su quella spiaggia, fra me e me dico: “vuoi vedere che la notizia di apertura sarà sulla camera ardente di Maurizio Costanzo?”. E invece il notiziario comincia e la prima notizia riguarda i morti di Cutro, ed io mi sorprendo di sorprendermi ancora, mi sorprendo che con disperazione, incertezza, confusione, lì dove posso, lì dove cerco disperatamente di trovare, lì dove non mi aspetto che ci sia per quanto vorrei con tutto me stesso che ci fosse, vedo d’improvviso, ancora una volta, fosse anche l’ultima, apparire l’uomo. Anche solo nell’ordine scelto per le notizie di un qualunque radio giornale.

Distinguere

È interessante osservare come nello svolgersi della storia l’uomo senta il bisogno di sottolineare la differenza dei ruoli anche se la differenza sta solo nel fatto che una volta in quel ruolo c’è stato lui e in un tempo diverso “l’altro”. Quindi sarà carnefice sempre l’altro ed io sempre vittima, oppure al massimo: innocente che subisce. Aggressore sempre l’altro ed io sempre aggredito, l’altro invasore ed io naturalmente invaso. Parole che servono a definire confini netti lì dove invece bisognerebbe tentare una lettura articolata, provare a decodificare un contesto sfumato da sovrapposizioni e incrostazioni storiche dove appunto confini netti non possono essercene. In questo senso, e proprio parlando di confini, secondo me il più riuscito esperimento revisionistico e al tempo stesso semantico in ambito storico è stato fatto da noi occidentali nell’ultimo secolo nel definire una differenza chiara affrontando la questione degli spostamenti di interi popoli (cosa che si replica praticamente da quando esiste l’uomo) da un luogo ad un altro. Lì siamo stati geniali, sintetici ed efficacissimi, non ci siamo nemmeno sforzati di cercare parole nuove, parole diverse appunto. Ci è bastato in questo caso aggiungere (o togliere, dipende come sempre dal punto di vista e dalla differenza che si vuole affermare) una sola e semplice “E”: Emigranti noi, solo migranti loro.

Piacere, necessità e paura del rischio

Piacere, necessità e paura del rischio

Da quando ho scritto il post dal titolo “L’autorizzazione” sono passati quasi tre anni e mi sembra adesso che ci sia qualche cosa da aggiungere, qualche cosa che nona avevo detto prima, su un argomento che mi sta molto a cuore, un po’ perché allora non l’avevo capita, un po’ perché nel frattempo le cose evolvono attorno a me. Nel titolo di questo post ho associato tre parole al sostantivo rischio: piacere, necessità e paura, vorrei cominciare dalla prima.

Mi sembra infatti che in questo nostro tempo ciò che prevale è il piacere del rischio. Il rischio infatti è l’anticamera del pericolo e il pericolo è ciò che “rischia” appunto di mettere in discussione uno degli elementi fondamentali della nostra vita, fino a porre in discussione la nostra vita stessa. Ne consegue una strategia di sopravvivenza che associa al rischio una produzione nel nostro corpo di una serie di ormoni fra i quali prevale l’adrenalina. Questa ha una funzione precisa, accelera il battito cardiaco, restringe i vasi sanguigni, dilata le vie aeree bronchiali, aumenta l’apporto energetico, insomma eccita tutti i nostri recettori, ci rende vigili, pronti, reattivi,

appunto con la finalità di permetterci di “sfangarla” al cospetto di qualche cosa che percepiamo come un pericolo. A tutti gli effetti quindi una specie di sostanza psicotropa autoprodotta. Uno strumento quindi che però nel nostro tempo sta diventando uno scopo. E’ questo quello che intendo quando parlo di “piacere del rischio”. Ottenere da un’esperienza una bella scarica di adrenalina che ci faccia sentire così come l’adrenalina appunto ci fa sentire. Diverse sono le pratiche che ci portano ad ottenere questo effetto “stupefacente” (e l’uso che faccio di questo termine nulla ha a che fare con lo stupore ma appunto con le sostanze psicotrope di cui sopra). Tutte quelle attività, per esempio, oggi molto in voga che rientrano all’interno del termine “challenge” (la sfida appunto). Pratiche attraverso le quali rasentare o addirittura sconfinare nel pericolo, per quali il rischio non è più un preavviso da tenere da conto ma piuttosto un allarme da superare per procurarsi quello che a tutti gli effetti potremmo descrivere come uno “sballo” autoindotto. Oppure quelle attività nelle quali il rischio è di fatto azzerato (per quanto sia possibile in cose che riguardano l’uomo) e che noi facciamo prendendo in qualche modo in giro il nostro corpo e il nostro cervello. Rientrano all’interno di queste attività alcune oramai molto diffuse come il bungee jumping, le zip line, i parchi avventura, i parchi tematici. Un altro modo per usare, in questo caso un “falso rischio” a fini psicotropi. E questo per quanto riguarda la prima parte della mia riflessione: gli esseri umani sono sempre più portati verso la replicazione di stimoli dai quali ottenere una qualche forma di eccitazione senza più che questi stimoli siano considerati strumenti ma essi stessi fini. Immagino che funzioni così anche per la ludopatia, lì dove la persona affetta da questa sorta di dipendenza non ha più interesse nel piacere della vittoria ma cerchi piuttosto l’emozione collegata al rischio di perdere.

Esiste, in contrapposizione a ciò, una necessità del rischio? Io credo di si. Nel post prima pubblicato e in altre riflessioni scritte in altri tempi scrivo appunto che il rischio sia una necessità ogni volta che intendiamo attivare una relazione profonda con il nostro Pianeta e offrirci all’incontro con esso. John Muir che sale fino alla cima di una conifera in un giorno di tempesta per provare a “proprie spese” cosa voglia dire essere appunto agitati dal vento, oppure che si spinge sulla cengia più esposta di una cascata, col rischio concreto di mettere un piede in fallo e precipitare nel vuoto, perché solo lì ha la possibilità di vivere la cascata, di percepirla in tutta la sua potenza, di sentirne il suono, il profumo, sono altrettanti esempi di come il rischio non è più funzionale a se stesso, non è più obiettivo, ma non deve, al tempo stesso, essere più percepito come un fattore limitante, un vincolo all’incontro che con tutte le nostre forze vogliamo avere. Il rischio che sconfina nella paura è infatti qualche cosa che ci vede perdenti, qualunque sia il gioco che stiamo giocando: ci fa perdere sul tavolo della sicurezza perché non abbiamo più la lucidità per affrontare adeguatamente il rischio, ci fa perdere sul tavolo della relazione perché ci limita e ci imprigiona in una rete di preoccupazioni che finiscono per tenerci a quella che crediamo essere “distanza di sicurezza” che alla fine è però soltanto una “distanza incolmabile”.

E se questa necessità del rischio si potesse applicarlo oltre che alla relazione con il nostro pianeta anche alle relazioni fra noi esseri umani? Se anche lì la paura ci stesse “tarpando le ali”, se anche lì il timore di farci male ci stesse tenendo a “distanza di sicurezza” rendendo impossibile l’incontro? Se anche lì l’impossibilità dell’incontro ci facesse propendere per succedanei “sicuri” come può essere la sostituzione della relazione con gli esseri umani con una relazione priva di rischi quale quella con un animale, quale per esempio il cane che è stato da noi “creato” proprio per avere a disposizione un essere vivente che non presenti rischi relazionali?

Anche in questo senso credo che il rischio diventi una necessità, diventi appunto un “rischio da correre” per tenere sotto controllo la paura che non ci consente di scorgere al di là dell’incontro l’opportunità per arricchire la nostra vita e per continuare a dare senso ai nostri giorni.

Insettella

Insettella

Devo dire che la polemica sull’introduzione degli insetti all’interno dei prodotti alimentari non mi sembra soltanto poco significativa, mi sembra soprattutto tardiva.

Volendo affrontarla in termini seri bisognerebbe fare un ragionamento lungo e complesso su quello che, in quanto esseri umani, consumiamo sul nostro Pianeta e del nostro Pianeta e quanto consumeremo continuando con l’incremento della popolazione che ha caratterizzato l’ultimo mezzo secolo. Bisognerebbe affrontare la questione relativa alla qualità del cibo che nell’era “pre insetti” consumiamo e quanto questa sia realmente e complessivamente più alta di quella che potrebbe essere la qualità del cibo una volta inseriti gli insetti nella nostra dieta.

Tutto ciò varrebbe la pena discutere non fosse che la polemica è, come dicevo, già di suo tardiva.

Cominciamo dalla normativa statunitense in materia di presenza di insetti nei cibi. Non sto parlando di insetti messi di proposito ma di insetti che ci capitano per caso. Stupiti? Ma perché credete che nel tempo e nel mondo del “tutto in enormi quantità” ci sia qualcuno che si preoccupa di togliere gli insetti, che ne so io, dalle granaglie prima della trasformazione in pasta o in lievitati? Pensate che qualcuno tolga le larve una per una dalla frutta che finisce per essere trasformata in marmellate, confetture, succhi? Certo, più insetticidi e pesticidi utilizzeremo nella coltivazione maggiore sarà la probabilità che questa quantità sia piccola. Bella soddisfazione!!!

Sentite cosa la normativa statunitense in materia (che è anche una delle più restrittive) dice in proposito: “gli alimenti possono generalmente contenere al massimo 50 frammenti di insetti in 50 grammi di prodotto”. Non so se mi sono spiegato? 50 frammenti di insetto in 50 grammi di prodotto (senza alcun riferimento per altro alla grandezza e al peso del frammento) !!! Il che vuol dire che quando vi fate qualche fetta biscottata con la marmellata o un bel panino con la nutella insieme a tutto questo avete ingurgitato anche l’equivalente di cinque mosche belle cicciottelle o di un paio di scarafaggiotti niente male. E questi sono quelli più rigidi. Volete sapere cosa dice in proposito la normativa italiana? Assolutamente nulla! Il che vuol dire che all’interno dei nostri alimenti può essere contenuta sin da adesso (e certamente lo è) una quantità illimitata “di pezzi di insetto” e, soprattutto, che non si fa alcun tipo di controllo per appurare quanti insetti ci sono nei nostri cibi. Ciò premesso direi, che ragionevolmente questo vuol dire: visto che “sgranocchiamo insetti” già da quando siamo nati perché mai dovremmo porci problemi adesso che, almeno, sarà chiaro dove, quanto e quali insetti mangeremo?

L’Apoteosi

In queste ore Palermo vive la sua apoteosi. E’, al contempo, un’apoteosi divina e ferina e d’altra parte non potrebbe andare diversamente in questa città. Nelle stesse ore in cui il Santo attraversa le vie della città e viene esposto per la pubblica adorazione, sempre nella stessa città, sempre fra le stesse strade, viene catturato il Mostro ed immediatamente offerto al pubblico ludibrio.

E noi palermitani dove siamo?

Noi palermitani siamo dove siamo sempre stati (e dove probabilmente saremo per sempre), siamo nel mezzo, siamo nella comoda zona grigia, quella che più di tutti amiamo abitare.

Siamo il mostro? Non sia mai (nsa ma DDiu)!!! Noi siamo brava gente e l’esistenza del mostro ci fa sentire tanto più buoni. Noi quelle cose lì non le faremmo mai e uno come lui ci serve per sentirci automaticamente redenti dai nostri piccoli peccati, dai nostri egoismi sdruccioli che continuiamo, sdoganati dalla sua inarrivabile malvagità, a coltivare immersi nel traffico di questa città o all’ombra delle nostre case.

Siamo il Santo? No il Santo no. E come potremmo d’altra parte? Lui solo è il Santo, di Santo ne nasce uno ogni morte di papa (vedi un po’ le coincidenza inverse) e noi, poveri mortali, mai e poi mai potremo aspirare a tanta santità. In questi giorni continuiamo a dire e scrivere “non preoccuparti Santo, continueremo noi il tuo lavoro…portiamo noi la tua croce sulle nostre spalle…le tue idee cammineranno sulle nostre gambe” ma è chiaro che ognuno di noi sta pensando alle spalle degli altri, alle gambe degli altri.

E così continuiamo, redenti e salvati dal Santo e dal Mostro, nel nostro sereno incedere in tanto urbano grigiume. Peccato che per completare la trinità del nostro pantheon palermitano manch

Patrimonio, identità e cultura

Ci sono luoghi, manufatti, paesaggi che “potrebbero” costituire l’identità di un popolo. Dico “potrebbero” perché ciò succede solo quando la potenziale identità è figlia e madre, al tempo stesso e in un rapporto circolare, di una cultura che con essa fa il paio. Se l’identità, determinata dalla somma delle componenti di ciò che gli anglosassoni con una felice sintesi definiscono come il “patrimonio” (heritage), non produce la cultura di un popolo e a sua volta la coltura da essa prodotta non fa proprio questo patrimonio considerandolo uno dei suoi pilastri portanti, allora assisteremo all’esistenza aleatoria di un patrimonio, alla perdita dell’identità e alla nascita, per altre vie, di una sub cultura assolutamente scollegata dal resto. In questo scenario, che molto spesso mi sembra assomigliare al nostro scenario siciliano, in cui l’identità si è perduta e la cultura non si è formata, rileviamo quotidianamente quello che accade al nostro patrimonio, destinato a trascinarsi sospeso all’interno di un “non tempo” e sotto forma di “rudere” fino al momento in cui non sia il tempo, appunto, ad avere ragione di esso oppure fino a quando, per motivi vari, non venga intercettato dalla sub cultura dominante e da essa venga trasformato in “altro” secondo i suoi parametri di riferimento. Basta andare in giro per la Sicilia per vedere quanto del nostro “patrimonio ambientale e culturale” (perché noi latini che non abbiamo il dono della sintesi lo chiamiamo così) si trovi oggi in queste condizioni.

Il resto è commento

Il resto è commento

Nel “Pendolo di Foucault” Umberto Eco sostiene, attraverso la storia di uno dei suoi personaggi, che per molti uomini la vita si riduce, oppure si magnifica, in un unico momento impareggiabile ed irripetibile. Tutto in un colpo solo insomma, a volte per vincere o perdere tutto, altre per consumare un unico attimo di bellezza assoluta e sublime, un momento che non sappiamo quando (e nemmeno se) arriva, destinato a bruciarsi in un tempo rapidissimo e che una volta concluso, nel suo essere appunto unico, lascia spazio, soltanto e per tutto il tempo che viene, al commento. E il commento alla fine é appunto tutto ciò che resta.

Mi piace pensare che questo avvenga non solo per le persone ma anche per gli oggetti. Quello che vedete in foto non so nemmeno come si chiama. So solo che per tutto l’anno aspetta, sulla rastrelliera dalla quale pendono altri utensili da cucina, il suo momento di gloria, il suo attimo fuggente. Quando poi viene il momento di fare i pomodori pelati ecco che per una breve stagione entra in azione giocando il suo impagabile ruolo di “attrezzo fondamentale per calare e tirare fuori dall’acqua bollente i barattoli da sterilizzare”. Poi quella stagione, che è appunto breve, passa. Mi piace allora pensare che questo strano oggetto, quando noi non lo vediamo, si riunisca con altri suoi simili, come le statuine del presepe, o gli addobbi dell’albero, oppure le zanzariere che mettiamo d’estate sui letti, e stiano li a raccontarsi e commentare quell’unico fulgido momento nel quale, in un colpo solo, vincere o perdere, barattolo salvo o in mille pezzi per terra, hanno dato senso alla propria esistenza.