Di relazioni ed altro

Di relazioni ed altro

Noi non esistiamo fuori dalla relazione. Velleitarie tutte le pretese di isolamento volontario, crudeli quelle di isolamento imposto. Gli altri sono la misura del nostro esistere, ci rispondono, ci corrispondono, percepiscono il nostro essere vivi e ci restituiscono, sotto innumerevoli forme, il senso della nostra esistenza. Uno degli effetti della relazione è il paragone. Attraverso il paragone noi acquisiamo le nostre coordinate all’interno dello spazio sociale. Mi sento terribilmente afflitto e sfortunato fino a quando l’entrare in relazione e il paragonarmi con altre persone più afflitte e sfortunate di me mi portano a rivalutare in positivo la mia condizione. Mi percepisco ricco e felice fino a quando il paragonarmi con persone a vario titolo più felici e più ricche di me mi porta a ridimensionare il mio stato. Il confronto ed il paragone con gli altri finisce per diventare unità di misura nel momento in cui sull’altro piatto della bilancia mettiamo qualche cosa che consideriamo metro di riferimento.

Torna a questo punto una memoria africana che ogni volta che la recupero lì per lì mi produce grande ilarità per poi, inevitabilmente, produrre una riflessione. Devo premettere che si tratta di uno di quei ricordi che non tirerei fuori durante una cena con amici. Per questo chi ha voglia di andare avanti nella lettura di questo post lo fa a proprio rischio e pericolo, spero vorrà perdonarmi e presto scoprirà il perché di questa premessa. Il fatto avviene durante la mia prima permanenza in Tanzania nel 2021. Nella seconda parte del mio viaggio mi raggiunge un amica. A distanza di qualche giorno dal suo arrivo cominciamo ad avere entrambi seri problemi intestinali. Come già detto in un post di qualche giorno fa ci trasferiamo in una missione ad una quarantina di chilometri dal nostro villaggio dove esiste una specie di ospedale. Veniamo ricevuti da questa fantastica, sorridente e sbrigativa suora di origine indiana che gestisce il presidio sanitario. Spieghiamo il nostro problema, la suora con assoluta disinvoltura ci consegna, uno per ognuno, due scatolette di cartone di quelle che normalmente contengono flaconi di pillole e ci invita a tornare da lei una volta che avremo depositato la dentro un campione delle nostre feci. Non darò molti dettagli dello sgomento che ci ha colpito nella successiva mezz’ora dovuto soprattutto all’incertezza su quale tecnica avremmo dovuto utilizzare per mettere il campione all’interno di quella scatola. Fatto sta che dopo una trentina di minuti appunto e parecchi tentativi eravamo di ritorno dalla suora (noi molto meno disinvolti di lei) con le nostre scatolette. Lei ci licenzia, invitandoci ad andarci a riposare in uno dei container trasformati in foresteria e ad aspettare lì gli esiti dell’esame. Dopo qualche ora passata a commentare tutti i dettagli di quell’interessante esperienza e a ridere a crepapelle al pensiero di quello che era successo (certe volte la lingua italiana rende tutto più triviale) ci vengono a chiamare. In pochi secondi siamo nuovamente al cospetto della suora. Lei ha in mano due foglietti di carta che sembrano essere stati prelevati, senza particolare cura circa la regolarità del taglio, da un foglio più grande di quelli che da noi si utilizzano per avvolgere il pane (ed è molto probabile che proprio di quello si trattasse). Lei ci guarda in faccia come per essere sicura a chi dare un “referto” e a chi dare l’altro, ma non c’è li da contemporaneamente. Mi passa prima il mio. Trattandosi di una missione italiana ed essendo noi volontari italiani i referti sono scritti in italiano. Sul mio c’è scritto: “un po’ di muco nelle feci”. Quando la suora capisce che ho letto il mio, allora e solo allora, passa il referto alla mia amica. Sul suo c’è scritto: “un po’ più di muco nelle feci”. Capite? Si tratta di referti relazionali! Non esiste il secondo senza il primo. Non è possibile leggere e comprendere il secondo se prima non si è letto e compreso il primo. Il primo è il peso di cui conosciamo già il valore che poniamo sul secondo piatto della bilancia per potere valutare il peso del secondo corpo. E il primo referto è appunto quello che con un luogo comune viene definito il “metro di paragone” senza il quale tutto ciò che viene dopo è inconoscibile. Ogni volta che mi torna in mente questa storia mi piace immaginare un terzo paziente, magari locale, magari arrivato qualche ora dopo, che fa il nostro stesso esame e al quale la suora avrà per forza di cose scritto una cosa del genere: “un po’ meno di muco nelle feci rispetto a quelle del cooperante italiano che per primo ha fatto l’esame stamattina”. Direi che la morale di questo racconto potrebbe essere che il confronto è sempre necessario sia che si tratti di relazioni che si tratti di deiezioni.

Dove la divinità si accasa

Dove la divinità si accasa

Oggi dopo sei anni sono tornato al santuario campestre della Madonna di Rifesi, nel cuore dei Monti Sicani. Un meraviglioso santuario normanno del XII secolo circondato da querce plurisecolari che fanno da confine ad un pianoro immenso e verdeggiante. Uno dei tanti santuari campestri siciliani, tutti bellissimi, tutti dimenticati ed abbandonati (in questo i fedeli vengono una sola volta l’anno in agosto). La mattina era gloriosa, un vento teso componeva e scomponeva contro il sole nuvole agitate, le querce osservavano e proteggevano, la divinità, almeno per me che professo un cristianesimo fortemente panteista, mi sembrava più che mai presente, più che mai compiaciuta di tanta naturale meraviglia. E mentre tornavo piano sulla sterrata marnosa che conduce alla strada ho pensato ad una delle mie storie africane di tanto tempo fa.
Ero da poco in Tanzania quando entrai in contatto, soprattutto per ragioni sanitarie, con una grande missione cattolica ad una quarantina di chilometri dal villaggio dove lavoravamo. Era infatti la sede del più vicino ospedale che meritasse questo nome e dove trovavamo riparo in occasione di una delle tante malarie che affliggeva noi cooperanti. La missione era sostenuta da una grande e ricca diocesi italiana che aveva, negli anni, cambiato il volto di quel villaggio. Esso si era infatti trasformato in una piccola e prospera cittadina, assolutamente imparagonabile a tutti gli altri villaggi che la circondavano. La missione portava avanti un tipo di cooperazione che non corrispondeva alla nostra idea di cooperazione e, come sempre accade in questi casi, nel tempo aveva prodotto tante cose buone e tante contraddizioni. Quando vi giunsi io era da poco stata completata la nuova chiesa. Era una costruzione enorme e bellissima. Un’importante architetto italiano si era ispirato ad una tipica casa Wahehe per progettarla, il tetto del corpo centrale era un’unica campata interamente realizzata in legno ed assemblata a terra prima di porla a copertura della struttura, a decorare l’interno della chiesa erano stati chiamati importanti artisti locali che l’avevano ulteriormente impreziosita con bellissime e coloratissime pitture murali che, un po’ in stile tinga tinga, riproducevano alcune scene del vangelo. Ogni volta che andavo alla missione provavo ad interrogare qualcuno dei sacerdoti o delle suore per conoscere la storia di quell’incredibile opera d’arte ma tutti erano evasivi, nessuno ne parlava con piacere ed una strana vergogna sembrava serpeggiare soprattutto fra gli europei. Poi finalmente, non ricordo da chi, venni a sapere la vera storia. Un giorno i ricchi sostenitori della missione fecero sapere a religiosi locali che a loro avviso la vecchia chiesa non era degna di una missione così importante e prestigiosa e che loro avevano raccolto 5 milioni di euro (!!!) per costruirne una nuova. I sacerdoti e le suore fecero sapere che per loro invece la vecchia chiesa andava benissimo e che con quei 5 milioni di euro loro avrebbero potuto fare una serie di cose decisamente più utili per le popolazioni locali. Allora i donatori risposero che o quei soldi li usavano così oppure loro non li avrebbero mandato. I missionari dissero che avrebbero costruito la nuova chiesa e così fu. Adesso a me piace immaginare, mi faccio certi film nella mia testa che non vi dico, e in molti di questi c’è la divinità per come a me piace pensarla. Ed io penso che la divinità ogni giorno (che un suo giorno chissà quanti dei nostri secoli dura) si faccia un giro della sua creazione. Si ripassa proprio tutto, da quello che ha fatto lei nei primi sei giorni a tutto quello che ha aggiunto poi questa strana creatura a cui lei, la divinità, ha insufflato dentro un po’ del suo spirito. Io credo che, fra le altre cose, essa guardi con piacere quella grande chiesa a forma di casa Wahehe in quel lontano villaggio africano, che sicuramente guardi con piacere le bellissime chiese della mia città, per esempio, lo splendido duomo di Morreale (senza chiedersi troppo magari quanti esseri umani sono stati sfruttati per costruirlo e quanti magari morti), la rutilante cappella Palatina (sorvolando, letteralmente, sul potere che questa ha simboleggiato nei secoli e che ancora adesso simboleggia). Ma con altrettanta certezza io credo che quando alla fine del suo giro, alla fine del suo giorno, stanca come nel sesto giorno della sua creazione, lei (sempre la divinità) scelga di accasarsi nel santuario campestre della Madonna di Rifesi, e lì passa tranquillamente la notte.

Impavesato

Impavesato

Il titolo della foto è: “l’orto invernale impavesato di gocce di rugiada”. Avrei potuto scrivere “ingioiellato”, sarebbe stato bello scrivere così, oppure “imperlato”, e anche quella è una bella parola, o ancora “impreziosito”. Ma io preferisco sopratutto “impavesato”. Usare questa parola di tanto in tanto nei miei scritti è un rito, anzi una specie di voto fatto ad una persona.

Io avevo due zii: Filippo e Ginette. Lui era fratello di mio padre. Loro sono stati per me genitori, nel tempo in cui avevo smarrito gran parte della relazione con “quello che restava” della mia famiglia di origine. Loro mi hanno restituito a me stesso. Ginette era francese, di Parigi. La storia d’amore di Ginette e Filippo meriterebbe un libro che mi piacerebbe dire che scriverò anche se so che non è così, non per incapacità ma per difetto di quelle che sono le informazioni fondamentali. Fatto sta che Ginette si era trasferita a Palermo poco dopo avere conosciuto Filippo e lì è rimasta per tutta la vita. Ginette ha imparato l’italiano così come Filippo ha imparato il francese. Loro, fra di loro, parlavano in italiano e litigavano in francese. Ginette fece subito dell’italiano una sua missione. Per come era fatta l’italiano non doveva essere solo imparato ma imparato, parlato, scritto meglio della maggior parte degli italiani che aveva conosciuto. E così fu. Tolta una deliziosa pronuncia con tanto di erre moscia che non perse mai, il suo italiano non era soltanto impeccabile, era anche colto, ricercato, per certi versi finanche esoterico e in fondo anche un po’ snob.

Ricordo con chiarezza il giorno in cui arrivai nella loro fantastica casa di via Ausonia e Ginette era reduce da non so quale delle sue innumerevoli letture. Fu quel giorno che mi disse: “impavesare non è un verbo bellissimo?”. Ed io, che nemmeno sapevo cosa significasse, dissi che sembrava una parola molto bella ma che se l’avesse usata parlando con “italiani” quasi nessuno l’avrebbe capita. Io purtroppo non ricordo parola per parola quello che Ginette mi disse allora, adesso rimpiango di non averlo registrato (così come rimpiango di non avere registrato molte delle cose che ci siamo detti e molti dei momenti passati assieme), ma ne ricordo ancora il significato generale che era più o meno questo: “non dobbiamo essere parsimoniosi con le parole, non dobbiamo vergognarci di utilizzare termini desueti e antichi, soprattutto se queste sono parole belle, parole che hanno un suono speciale, parole che impreziosiscono tutta una frase, o magari un intero discorso, o addirittura noi stessi che le diciamo. Il pavese, un tempo scudi sulle fiancate delle navi, oggi sfilza di bandierine tese da un punto all’altro dell’imbarcazione, è un’immagine bella, un’immagine di cura e tutta questa cura e questa bellezza le porta con se nel discorso che la parola contiene, sul volto di chi la parola pronuncia”. Ginette cara del mio cuore, anni dopo sarebbe venuto il tempo della tristezza e del pianto, io però quella parola, che quel giorno grazie a te ho imparato, me la porto dentro, assieme a tante altre che nel frattempo ho imparato, e di tanto in tanto la uso, in quello che dico, in quello che scrivo, e così farò fino a quando sono qui, fino a quando non ci rincontreremo da qualche parte (e su questo non nutro alcun dubbio). Sono certo che quel giorno sarà un bel giorno di inizio primavera, magari lungo una di quelle spiagge che tanto amavi, e mentre nuvole maestrali “impaveseranno” quel cielo vi vedrò arrivare, camminando lenti mano nella mano, e sentirò il cuore in gola e le lacrime agli occhi.

Il miracolo della neve

Il miracolo della neve

Forse era uno di questi giorni. Oppure era in febbraio, un po’ più avanti di adesso. Di sicuro ero in una scuola elementare, in una scuola elementare di Montevago (i miei amici Antonella e Giuseppe ricorderanno sicuramente). Conducevo un momento di formazione di quelli che noi educatori alla Terra chiamiamo “sessioni di interesse” e che ci servono a condividere un metodo che quasi trenta anni fa mi folgorò letteralmente sulla “via di Civitella Alfedena”.

Loro, le insegnanti (ricordo con chiarezza che erano tutte donne) sedevano davanti a me dando le spalle alla grande vetrata che ricopriva per intero uno dei lati corti della classe. Io in piedi, nella mia “dancing zone” (è così che il mio Maestro chiama lo spazio dove ci muoviamo un po’ convulsamente durante i nostri interventi ed è così che mi piace chiamarlo), guardavo e parlavo con loro e al tempo stesso potevo vedere quello che accadeva fuori, nel muto giardino invernale (poco più di un aiuola) che circondava la scuola.

Già, quando ero partito da Palermo, la mattina si apriva su quello che sarebbe stato un bel giorno di inverno, per come devono essere i giorni e per come dovrebbe essere l’inverno.

Poi, quando ero in classe già da diversi minuti, impegnato nella sessione, i miei occhi, che avevano indugiato per qualche minuto sui partecipanti, si sollevarono di pochi gradi per guardare fuori: e fuori nevicava. Non una nevicata così, non qualche fiocco tanto per dire, non grandine che la nostra immaginazione e speranza vuole farci credere sia neve, ma proprio una nevicata “come si deve”, una cortina fitta e leggera di fiocchi determinati a raggiungere il suolo e a restarci per tanto tempo e che, solo di tanto in tanto, si offrivano, in una danza leggiadra, ai capricci di una folata di vento. Ed io mi interruppi di colpo perché davvero non c’erano parole che potessero sostituirsi a tanta meraviglia. Chiesi soltanto alle maestre di lasciare perdere le mie fregnacce e che si girassero invece per assistere, in silenzio, al miracolo. E restammo così, seduti, per un tempo che non riesco a definire. Improvvisamente davanti ai nostri occhi ed in pochi secondi la classe (che già di suo è luogo sacro) si trasformò in santuario e noi in umili sacerdoti resi muti dal voto che l’uomo ha fatto con la divinità immanente all’inizio dei tempi: a lei la parola creatrice, all’uomo il silenzio che induce alla contemplazione. Il miracolo, quello vero, quello che non si presta a giochi di statue piangenti, quello che si annida nella nostra vita di ogni giorno, invisibile per chi è cieco, palese per gli altri, si dispiegava davanti ai nostri occhi, e noi eravamo lì per quello, ognuno di noi si era svegliato quella mattina e aveva compiuto la strada necessaria per arrivare in quel luogo, per quello, solo per quello.

Lentamente la nevicata ebbe fine. Senza parlare ognuno riprese la propria posizione e continuammo la nostra sessione.

Oltre lo specchio

Oltre lo specchio

Le cose ti tornano in mente per vie misteriose: un odore, il sapore di un dolcetto francese, alcune parole scambiate con l’osteopata, il rumore della pioggia che ti ha accompagnato tutta la notte e che ancora ti porti dentro. E oggi recupero un ricordo, uno di quelli che ogni volta che torna mi fa dire: “è uno di quei ricordi che resteranno con me fino a quando vivo”. E poi, finito di dirlo, finito di ricordarlo, anche lui torna in quel luogo di nessuno (neanche mio che lo porto dentro) dal quale non sai mai se riuscirai a recuperarlo nuovamente. L’oblio d’altra parte a questo punto è un rischio concreto visto che è un ricordo risalente a trentacinque anni fa.

Ero in Malesia durante la mia mitica Operation Raleigh, una spedizione scientifica internazionale che coinvolgeva giovani di tutto il mondo in spedizioni sparpagliate per tutto il mondo. Ero nella seconda fase della spedizione, isola deserta nel mare al sud della Cina, nome dell’isola: Pulau Tinggi, ricerca subacquea per conto del governo malese che in quella zona di barriere coralline voleva creare (cosa che poi fece) un’area protetta. Due immersioni al giorno, qualunque fosse il tempo, fuori e dentro il reef, innumerevoli transetti sulla barriera. Per le 17 però tutti dentro perché verso quell’ora si scatenava sempre una specie di piccola tempesta che da lì a pochi minuti ci avrebbe restituito ad un cielo limpido e stellato.

Poi un giorno usciamo un po’ più tardi nel pomeriggio, forse qualche inconveniente, un contrattempo tecnico. In programma un’immersione profonda: – 55 metri. Ci caliamo che già all’orizzonte si vedono i soliti nuvoloni color pece. Facciamo la nostra immersione, cominciamo la risalita, a tre metri dalla superfice ultima sosta di decompressione. E a quel punto, dopo essermi stabilizzato con il gav per potere stare fermo per qualche secondo a quella profondità, alzo gli occhi verso l’alto. E fuori ha cominciato a piovere. Ed io improvvisamente sento, con una forza con la quale non lo avevo mai sentito prima, di abitare un universo parallelo. La mia superficie non è quella sulla quale impattano le gocce di pioggia, è quella opposta, quella nella quale le gocce penetrano per un brevissimo tratto e poi ribalzano nuovamente all’esterno, in quell’altro mondo. Sono dentro “Alice allo specchio”, sono in una di quelle misteriose ed inquietanti opere di Escher nelle quali non sai più chi sei tu, se sei il pesce sotto la superficie, se quella è superficie, dove finisce il cielo e comincia il mare, se sei osservatore od osservato. Ma più di tutti, più di ogni altra cosa io allora (e per quei pochi metri che mi separavano da quel confine) sono stato felice, ho sentito che il Pianeta mi parlava con una lingua mai sentita prima, ho partecipato di una meraviglia che ti cambia per sempre. Ecco, questo “è uno di quei ricordi che resteranno con me fino a quando vivo”.

Della felicità, del calcio e dello stadio Diego Armando Maradona

Della felicità, del calcio e dello stadio Diego Armando Maradona

Quello della felicità è territorio impervio. Ti sembra di mettere i piedi su terreno solido e sei già per metà immerso nelle sabbie mobili. Ti sembra di nuotare in acque limpide e aperte ed improvvisamente ciò che era liquido si trasforma attorno a te in sostanza vischiosa e impenetrabile. Quello della felicità è veramente territorio impervio ed io già lo sapevo mentre organizzavo questa tre giorni con il Mio Adorato, forse l’ultimo tempo congruo assieme, io e lui da soli, prima del tempo del distacco, di questo agosto che viene troppo in fretta, calzando gli stivali delle sette leghe.

Allora mettendo da parte la mia avversione per il calcio, ché a me piace pensare che risalga al tempo in cui Berlusconi diventò presidente del Milan (che era la squadra per la quale prima del suo avvento tifavo), gli ho detto “che fa, ci vuoi venire con me tre giorni a Napoli in occasione della partita dell’anno Napoli-Juve” (lui per ragioni misteriose tifa Napoli). Figurarsi se quello perdeva questa occasione. Solo che lui non lo sapeva, o forse sì, che era un viaggio che ne replicava un altro fatto più di cinquant’anni fa, con una nave simile a quella, in una città simile a quella, con l’unica differenza che colui che adesso è padre allora era figlio come è lui adesso e l’acquario di Napoli, che allora mi sembrò enorme, oggi assume le sue reali dimensioni (o forse no, e le sue reali dimensioni erano quelle di allora?). E poi ieri sera eravamo finalmente nel “catino del Diego Armando Maradona” (lo vedete che se anche non mi interesso più di calcio parlo ancora perfettamente il linguaggio del telecronista sportivo!?!?!) e per quanto mio cugino avesse fatto un miracolo nel trovarci i biglietti non eravamo seduti accanto e nemmeno vicini. Io in un punto della zona distinti e lui ad una quarantina di metri da me accanto a cugina e fidanzato della cugina. Ed io a rosolarmi per tutto il primo tempo in quella sostanza grassa come la sugna che è il rimpianto: “quanto sarebbe stato bello vedere accanto a lui la partita…ma in fondo è la sua felicità che conta e non la mia e lui in questo momento è sicuramente felice anche se io non sono accanto a lui”. E poi un posto si libera accanto a me e tutto il tempo da quel momento a friggere nell’olio leggero del rimorso futuribile: “e se gli dico di venire e poi il Napoli perde? Lasciamo stare e teniamolo lì tranquillo dove è”. E poi nell’intervallo un salto da lui per dirgli facendo finta di niente: “guarda Zacco che c’è un posto libero accanto a me”, e lui che mi risponde “lascia stare papà, resto qui con Giorgia”. E poi venti secondi prima che ricominci la partita me lo vedo arrivare, scomposto e confuso come è sempre, che ci ha ripensato e che vuole stare vicino a me. Ma il posto nel frattempo se lo è preso un signore che anche lui aveva il suo un po’ distante dalla sua famiglia e che però, anche lui padre, una volta visto i miei occhi supplichevoli ha detto: “va bene, io in fondo sono più vicino ai miei di lei, preferisco che siate voi a stare vicini”. E ho pensato che certe volte il mondo funziona per come dovrebbe, e ho messo da parte ogni grasso di cottura, e abbiamo esultato assieme per il 3 a 1 e per il 4 a 1 e poi ancora per il 5 a 1 e avrei voluto che il Napoli non finisse mai di segnare, non che me ne freghi niente del calcio, ma per unire alla sua la mia voce, per sentirmi uno con lui anche in una situazione così insulsa, per prolungare ancora per un po’ questa “nostra infanzia” che è dono della divinità e dell’umana perseveranza. Lo vedevo accanto a me così grande ed io mi sentivo così piccolo, così piccolo e così fragile ma al tempo stesso così felice.

Dicevo che la felicità è un territorio impervio ed io ieri sera lo ho attraversato, lo ho percorso in tutte le direzioni, accanto all’uomo della mia vita senza sapere se quella vita ci darà ancora la possibilità di affrontare altri cimenti simili in futuro.

E per quanto, come ho già scritto diverse volte, a me del calcio non me ne freghi niente, vuoi mettere la soddisfazione di vedere quegli stronzi della Juventus perdere 5 a 1!?!?

L’Antico Testamento secondo Cesare

In cammino sul sentiero costiero dello Zingaro. Raggiungo i due fratelli e cugino che già, chissà da quando e perché, hanno cominciato uno dei loro sproloqui attorno al concetto “Sul Livello del Mare”. Le affermazioni sono del seguente tenore: “in realtà uno non sarà mai al livello del mare…anche quando è immerso in acqua ha una parte al di sopra del livello del mare e una al di sotto…anche su una tavola da surf sei 3 centimetri sopra il livello del mare” e via dicendo. Ad un tratto Zaccheo con chiaro intento triviale dice “in realtà l’unico che si può dire fosse al livello del mare era Gesù quando camminava sulle acque”. Il Piccolo naturalmente abbocca: “ma che dici…tanto lo sai pure tu che Gesù è una legenda!”. Suo fratello lo incalza:”non ti azzardare a dire una cosa simile alla nonna”. Il Piccolo si schernisce: “no…figurati…una volta che le ho detto una piccola cosa blasfema (e giuro che io mai e poi mai vorrò sapere quale è questa piccola cosa blasfema che ha detto alla nonna) quella mi ha tenuto un’ora in cucina raccontandomi di una volta che GESÙ gli ha detto ad UNO di AMMAZZARE SUO FIGLIO (il maiuscolo è a cura del redattore)”. Io e Zaccheo a quel punto, in un’accorata difesa dei testi sacri, di Abramo, di Isacco e di quattromila anni di tradizione cristiana, quasi all’unisono gli diciamo: “Cesarino, anche senza l’obiettivo della prima comunione, forse una passaggetto al catechismo male non ti farebbe”.

Sabato, domenica e lunedì

Sabato, domenica e lunedì

Come spesso avviene durante il fine settimana, stretto fra il tetto e il cielo, quando le premure del tetto me lo hanno concesso mi sono dedicato a quelle del cielo.

Nel primo giorno del fine settimana ho completato i filari dell’orto mettendo a dimora ciò che la stagione mite era ancora disposta ad accettare. Ma soprattutto ho tolto le infestanti che già invadevano l’orto, che già sottraevano alle plantule, che fra qualche settimana saranno le protagoniste di una delle fantasmagoriche cene offerte dalla “cuoca”, la luce e le sostanze nutritive. Per lo più inermi acetoselle ma ogni tanto agguerrite piccole ortiche già dotate di minuscoli ma aggressivi vacuoli.

Nel secondo giorno del fine settimana ho dovuto eliminare un gigantesco fico d’india che a causa del peso, del vento e della terra impregnata d’acqua, ha perso la sua battaglia con la gravità, invadendo parte della stradella. Mi è venuta in soccorso la mia vecchia sega a motore e dopo qualche ora di lavoro un mucchio di cladodi giacevano al di là della recinzione già pronti a riprodurre, in quella zona e con pedissequo intento genetico, lo sradicato genitore.

Oggi e lunedì e le mie mani sono il diario di quelle due giornate. La punteggiatura del racconto sono le spine di fico d’india e le piccole ustioni d’ortica. Posso sentirle distintamente mentre pigio sui tasti, posso sentirle quando prendo un oggetto. Costituiscono in se un bel ricordo? No. Rappresentano un dolore troppo grande? No. Stanno da qualche parte in mezzo alla memoria dei giorni passati, da qualche parte fra il bisogno e il desiderio. Sono memento, sono paradigma in fondo, sono come i graffi sulle gambe alla fine di una bella escursione, sono il prolungamento nell’oggi di ciò che è stato ieri, sono sintesi di quello che la vita può permettersi, di ciò a cui, nell’esiguità del giorno e nella fugacità del tempo, possiamo aspettarci dal nostro essere umani.

Il rito

Il rito

In una casa dove i riti sono fondamentali ce ne è uno che per noi è il rito dei riti: “8 dicembre – fare il Presepe”. Il rito presuppone una sequenza precisa di azioni e parole alle quali non si può derogare, che devono per forza essere agite e dette in quel preciso ordine. D’altra parte ogni hanno il rito si arricchisce di nuove azioni e di nuove parole invariabilmente frutto di alcune variabili impazzite che quasi come i riti sono elementi strutturali della mia famiglia. Una di queste è certamente l’ateismo praticante e primigenio del Piccolo. E quindi fra le azioni e le parole oramai stabilizzatesi dentro il rito certamente quelle che riguardano l’esistenza di due personaggi identici (frutto di qualche svista di mia madre) che io spaccio per “i gemelli che entrano dentro la locanda” e che i miei derubricando a semplici doppioni. L’eterna questione riguardante la collocazione del “pastore brutto e di plastica” che comincia sempre con una posizione intransigente di tutti (“quest’anno non lo mettiamo… è troppo brutto”) che si smorza poi, nell’atmosfera natalizia, in una pacata compassione che ci convince, non sia mai che anche il presepe smetta di essere inclusivo, ad inserirlo magari in posizione defilata e poco visibile. Poi ci sono, appunto, le novità dell’anno che per lo più sono figlie del Piccolo deicida, cose del tipo: gara a chi trova per primo la statuina di Maria. Quasi alla fine dello spacchettamento il Grande la trova, il Piccolo tenta di recuperare qualche punto dicendo “io però avevo trovato prima quello…come si chiama…il marito insomma”. Oppure quando il Grande propone per quest’anno un presepe “destrutturato”, per esempio con Gesù che gattona nella piazza del paesino con tanto di ciuccio e pannolino, il Piccolo con greve metafora “marvelliana” dice “si così lo chiamano l’amichevole Gesù di quartiere”. In ogni caso però, ogni anno da quando vivo in questa vita in cui io sono il padre e non più il figlio, il rito si conclude sempre nella stessa maniera: inserito l’ultimo ciuffo di muschio, l’ultima pecorella, io faccio tre passi indietro e dico: “bello come quest’anno mai!”. I due mi guardano e sempre, da quando esistono e parlano, dicono: “papà ma che dici!?!? Ma se è uguale a quello dell’anno scorso!!!”.

L’Età dell’Oro

L’Età dell’Oro

In ogni epoca l’uomo di quell’epoca ha la sensazione che l’epoca precedente sia stata migliore della sua. Woody Allen con “Midnight in Paris” descrive questa distorsione dell’umana percezione. La nostra epoca celebra i meravigliosi anni 60 (per la verità mio figlio mi chiedeva l’altro giorno: “ma perché tutti parlano dei fantastici anni 80”, individuando così una sorta di scorrimento tellurico che sovrappone una piastra temporale sull’altra), negli anni 60 si parlava con nostalgia degli impareggiabili anni compresi fra i 70 dell’800 e l’inizio della prima guerra mondiale, mitizzandoli fino al punto da definire quell’epoca come la “Belle Epoque”. E così via di seguito andando indietro nel tempo fino alle mitiche “Età dell’Oro” presenti in quasi ogni cultura e tradizione, tempi ormai appartenenti alla mitologia e ai quali si attribuivano caratteristiche di purezza, fortuna e felicità “ormai” sconosciute nella società di questo tempo.

Questo non vale unicamente per le epoche nella loro interezza ma anche per quanto riguarda singoli frammenti di quei tempi felici: “la frutta di oggi non ha più il sapore di quella di una volta…le famiglie un tempo erano compatte, durature e felici…i film, i libri, la musica di una volta non ci sono più in questo tempo”.

Oggi, percorrendo la strada che percorro ogni giorno per andare a lavoro, mi sono nuovamente imbattuto in un ambulante (che evidentemente non ambula tanto visto che è sempre allo stesso punto di via Regione Siciliana da anni) che vende essenzialmente rotoloni di carta e stoviglie usa e getta. E oggi promuoveva con grandi cartelli colorati quelli che sembravano con tutta evidenza dei pacchi di piatti di plastica non biodegradabile (sarebbe interessante capire come se li è procurati). Sui cartelli c’era scritto: “Piatti all’Antica”. Dalla surreale Palermo per oggi è tutto.