Noi non esistiamo fuori dalla relazione. Velleitarie tutte le pretese di isolamento volontario, crudeli quelle di isolamento imposto. Gli altri sono la misura del nostro esistere, ci rispondono, ci corrispondono, percepiscono il nostro essere vivi e ci restituiscono, sotto innumerevoli forme, il senso della nostra esistenza. Uno degli effetti della relazione è il paragone. Attraverso il paragone noi acquisiamo le nostre coordinate all’interno dello spazio sociale. Mi sento terribilmente afflitto e sfortunato fino a quando l’entrare in relazione e il paragonarmi con altre persone più afflitte e sfortunate di me mi portano a rivalutare in positivo la mia condizione. Mi percepisco ricco e felice fino a quando il paragonarmi con persone a vario titolo più felici e più ricche di me mi porta a ridimensionare il mio stato. Il confronto ed il paragone con gli altri finisce per diventare unità di misura nel momento in cui sull’altro piatto della bilancia mettiamo qualche cosa che consideriamo metro di riferimento.
Torna a questo punto una memoria africana che ogni volta che la recupero lì per lì mi produce grande ilarità per poi, inevitabilmente, produrre una riflessione. Devo premettere che si tratta di uno di quei ricordi che non tirerei fuori durante una cena con amici. Per questo chi ha voglia di andare avanti nella lettura di questo post lo fa a proprio rischio e pericolo, spero vorrà perdonarmi e presto scoprirà il perché di questa premessa. Il fatto avviene durante la mia prima permanenza in Tanzania nel 2021. Nella seconda parte del mio viaggio mi raggiunge un amica. A distanza di qualche giorno dal suo arrivo cominciamo ad avere entrambi seri problemi intestinali. Come già detto in un post di qualche giorno fa ci trasferiamo in una missione ad una quarantina di chilometri dal nostro villaggio dove esiste una specie di ospedale. Veniamo ricevuti da questa fantastica, sorridente e sbrigativa suora di origine indiana che gestisce il presidio sanitario. Spieghiamo il nostro problema, la suora con assoluta disinvoltura ci consegna, uno per ognuno, due scatolette di cartone di quelle che normalmente contengono flaconi di pillole e ci invita a tornare da lei una volta che avremo depositato la dentro un campione delle nostre feci. Non darò molti dettagli dello sgomento che ci ha colpito nella successiva mezz’ora dovuto soprattutto all’incertezza su quale tecnica avremmo dovuto utilizzare per mettere il campione all’interno di quella scatola. Fatto sta che dopo una trentina di minuti appunto e parecchi tentativi eravamo di ritorno dalla suora (noi molto meno disinvolti di lei) con le nostre scatolette. Lei ci licenzia, invitandoci ad andarci a riposare in uno dei container trasformati in foresteria e ad aspettare lì gli esiti dell’esame. Dopo qualche ora passata a commentare tutti i dettagli di quell’interessante esperienza e a ridere a crepapelle al pensiero di quello che era successo (certe volte la lingua italiana rende tutto più triviale) ci vengono a chiamare. In pochi secondi siamo nuovamente al cospetto della suora. Lei ha in mano due foglietti di carta che sembrano essere stati prelevati, senza particolare cura circa la regolarità del taglio, da un foglio più grande di quelli che da noi si utilizzano per avvolgere il pane (ed è molto probabile che proprio di quello si trattasse). Lei ci guarda in faccia come per essere sicura a chi dare un “referto” e a chi dare l’altro, ma non c’è li da contemporaneamente. Mi passa prima il mio. Trattandosi di una missione italiana ed essendo noi volontari italiani i referti sono scritti in italiano. Sul mio c’è scritto: “un po’ di muco nelle feci”. Quando la suora capisce che ho letto il mio, allora e solo allora, passa il referto alla mia amica. Sul suo c’è scritto: “un po’ più di muco nelle feci”. Capite? Si tratta di referti relazionali! Non esiste il secondo senza il primo. Non è possibile leggere e comprendere il secondo se prima non si è letto e compreso il primo. Il primo è il peso di cui conosciamo già il valore che poniamo sul secondo piatto della bilancia per potere valutare il peso del secondo corpo. E il primo referto è appunto quello che con un luogo comune viene definito il “metro di paragone” senza il quale tutto ciò che viene dopo è inconoscibile. Ogni volta che mi torna in mente questa storia mi piace immaginare un terzo paziente, magari locale, magari arrivato qualche ora dopo, che fa il nostro stesso esame e al quale la suora avrà per forza di cose scritto una cosa del genere: “un po’ meno di muco nelle feci rispetto a quelle del cooperante italiano che per primo ha fatto l’esame stamattina”. Direi che la morale di questo racconto potrebbe essere che il confronto è sempre necessario sia che si tratti di relazioni che si tratti di deiezioni.