Coleus blumei

COLEUS BLUMEI
Il nostro interesse per i fatti scientifici ha dinamiche non molto diverse da quelle che orientano la moda. Ultimamente siamo tutti esperti di cambiamenti climatici, tempo fa in molti si sono specializzati sul tema delle piogge acide, in un tempo ancora più lontano il popolo italiano scoprì di nutrire una passione esagerata nei confronti della genetica. Era il tempo della povera pecora Dolly, e fu allora che le parole clone e clonazione entrarono prepotentemente nel nostro linguaggio quotidiano in maniera assolutamente divisiva (un po’ come per la trippa) fra coloro che reputavano la clonazione l’ennesima conquista della nostra specie e quelli che consideravano la cosa l’ennesimo passo verso il baratro. Noi agronomi al tempo fecimo spallucce e dissimo “pfui” (immagino fecero la stessa cosa i botanici anche se non ne ho mai frequentati molti): sapevamo bene infatti che questa storia della clonazione era qualche cosa che le nostre piante avevano già inventato diverse centinaia di migliaia di anni fa solo che noi la chiamavamo “riproduzione agamica” senza farci su tanti discorsi. Avete presente quando staccate un rametto da una pianta e lo mettete in un barattolo con dell’acqua e quello dopo un poco tira fuori le radici? Ecco quella si chiama “talea” ed è clonazione. Avete presente quando mettete un po’ di sfagno attorno al ramo di una pianta e lo avvolgete in un sacchetto di plastica dopo averlo inumidito e dopo un poco tagliate il ramo e avete una nuova pianta? Bene quella si chiama “margotta” ed è clonazione. Avete presente quando staccate un rametto da una pianta oppure una gemma e l’attaccate su un’altra pianta e dopo un poco viene fuori una pianta uguale uguale a quella da cui avevate preso il rametto (che si chiama anche “marza”) o la gemma? Ecco quello si chiama “innesto” ed è clonazione. L’ulivo, che da gran furbacchione si spaccia come una delle piante più longeve al mondo, in realtà non fa altro che autoclonarsi all’infinito grazie alla sua capacità pollonante (che nulla ha a che fare con i polli contrariamente a quello che pensammo noi, squadriglia scout di dodicenni, che fu mandata nel bosco con una scheda di campo decisamente non alla nostra portata nella quale ci si chiedeva di trovare “polloni” e “succhioni”. Naturalmente non mi soffermerò su cosa pensammo della seconda richiesta). Eppure quando penso alla clonazione delle piante raramente penso alle mie lezioni di genetica agraria all’università di Palermo o a quelle di plant propagation in quella del Montana. Generalmente invece penso a mia Zia Pina. Zia Pina in realtà era una prozia. Era una delle sette sorelle di mia nonna Santina (più due fratelli), moglie di Nunzio, valente e silenzioso falegname che era anche una delle persone che ho maggiormente amato nella mia vita. Privi di figli, adottatori seriali di nipoti a rotazione (provenienti da sorelle che invece figli ne avevano parecchi) risiedevano a Gangi in un ciclo annuale che li vedeva di inverno abitare la casa verticale di via Leptine (nel centro storico di un paese come Gangi che non ha centro inerpicandosi a spirale sul Monte Marone) e d’estate trasferirsi nella rusticissima dimora dell’Acquanuova, una rinomata contrada a qualche chilometro dal paese famosa per la leggerissima acqua che ancora oggi sgorga all’interno di un antico bevaio circolare. Quando cominciava l’estate? Quando Nunzio era certo di potere condurre moglie e masserizie sulla sua 850 special alla volta della casetta senza l’onta di impantanarsi in quel maledetto chilometro di sterrata che separava la casa dalla strada statale.

Pina era comunque la prima delle sue sorelle a raggiungere la dimora estiva e per questa ragione rivendicava per se un ruolo preciso: lei infatti era la “propagatrice”. Prima che Sarina si trasferisse a “L’Eco” (conoscete il nome di una contrada più poetico di questo?!? Praticamente un luogo che non esiste essendo di fatto irraggiungibile il posto dal quale proviene l’eco!!!), che Santina si trasferisse a Ramo, e le altre sorelle in altrettante contrade gangitane, Pina, che nella 850 special aveva trasportato, fra le altre cose, anche le piante di casa (che certo non potevano restare da sole in via Leptine), si premurava di cominciare subito la sua opera di propagatrice, in modo tale che quando le sorelle sarebbero arrivate avrebbero potuto beneficiare dei prodotti del suo lavoro, abbellendo le case di campagna con le talee che lei nel frattempo aveva fatto radicare. Pina, che naturalmente non ne sapeva niente di genetica, era in compenso appunto un’abile propagatrice che conosceva benissimo la tecnica pur sconoscendo la teoria e la cui casa, per qualche settimana, si riempiva di vasi di conserva di vetro pieni di talee. Al tempo andava per la maggiore una pianta che davvero non riesco nemmeno vagamente ad immaginare come e quando fosse arrivata dall’esotica Giava alla rurale Gangi e che oggi è quasi scomparsa dalle nostre case: la Coleus blumei. Si tratta di una bellissima pianta dalle foglie venate di viola, nella varietà utilizzata da mia zia, che di fatto aveva colonizzato il paese a partire dalle case delle mie prozie e di mia nonna. Anni dopo avrei letto il bellissimo libro di Michael Pollan “la botanica del desiderio” nel quale l’autore sostiene un’ardita tesi: le piante non sono così stupide e statiche come pensiamo ma in realtà, nel loro valicare le ere molto meglio di quanto non siamo noi capaci di fare, hanno imparato a manipolarci. Pollan sostiene infatti che il melo, la patata, la canapa e i tulipani sono stati capaci di utilizzarci, esercitando su di noi ognuna una diversa forma di attrazione, in modo tale che noi facessimo di loro specie di successo infinitamente propagate. Ecco, io credo che il Coleus facesse la stessa cosa con mia Zia Pina e le sue sorelle, le utilizzava come inconsapevoli propagatrici che, innamorate della bellezza delle sue foglie, erano disposte a riprodurla ancora ed ancora, anno dopo anno, facendo si che la pianta conquistasse sempre nuovi territori. Alla fine probabilmente la stessa, prima, unica pianta, che chissà come Zia Pina si era procurata e che continuava ad essere clonata costituendo a tutti gli effetti una sorta di mega organismo diffuso (come oggi le arance navel, o le clementine, o le banane), aveva colonizzato, a loro insaputa,il borgo di Gangi.

A distanza di quasi 60 anni mi chiedo se sia rimasto ancora, da qualche parte nel paese, un pezzo di quell’entità genetica, sopravvissuta a Pina, a Santina, a Sarina, a Piera, a Felice, a Francesca, ad Antonietta (e anche a Salvatore e a Matteo che io non conobbi mai). Di certo ancora qualche volta ritorna nei miei sogni. La vedo nel vano di una finestra, tante talee per quanti sono i vasi di vetro disposti sul davanzale, e dietro il paese che tremola nella calura estiva, in una casa che non esiste più, in un tempo che non ritorna.

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