Nella luce di questi colli,
nelle acque di questo fiume
io adesso mi immergo.
ciò che ad altri piacque
io non volli.
E dopo tanto
sento nuovamente
la tua voce,
E in un momento
sono ancora tuo,
solo cosa
fra le cose,
solo sasso
su cui scorre l’acqua.
Tornerò al mondo
in cui sono,
in cui esisto,
nel quale la tua voce
non sento più
e ansia precoce
scorre i miei giorni.
Non fosse
per questo abbraccio,
per questo mio
essere andato,
non fosse
per questi ritorni,
per questo breve
non essere stato.
Stasera sono stanco
e mi manca la rabbia,
mi manca il coraggio.
Abbi pazienza fino a domani
quando dentro il mio zaino
ciò che adesso mi manca
sono certo riapparirà.
Per stanotte però
ti chiedo un dono
mai chiesto prima:
lascia che ti affidi,
per una notte sola,
il monte,
nelle tue mani ricevi
il fiume,
con le tue ali proteggi
il bosco.
Non farlo di nascosto,
ti prego,
con voce acuta di assiolo
sveglia gli uomini che dormono
e mostra loro
che ancora adesso,
dopo tanto tempo,
ogni cosa o essere
hai a cuore e chiami per nome,
il tuo fiato e la tua saliva
ad impastare fango,
che alla fine di questa notte,
sfiorando i miei occhi,
alla luce dirai di essere
e la luce sarà.
E quella cicatrice
fu confine
che una volta varcato
non consentì ritorno.
Fu bisettrice
che un’aria unica divise
per farne due vite:
ingiustamente esigua la prima,
immeritatamente lunga la seconda.
C’è chi dice
che questa croce da penitente,
come un monito,
da allora mi porto sulla schiena.
Io spettatore attonito,
tu attrice
morta sulla scena.
Amico
che come me
cammini i sentieri
considera:
se ieri
troppo a lungo
sotto gli alberi
incedemmo,
troppo
in forre strette
invisibili ai più,
troppo
dove corre
un fiume segreto
e sul greto
solo granchi e felci.
Oggi,
stanchi,
ti ricordo,
per quel che vale,
che quando fosti
sulla soglia
della mia casa,
il sale, il pane,
l’acqua e un letto
ti ho offerto.
Adesso
fuori dalla selva
ti chiamo,
per dare, dire,
considerare,
fuori dalla selva,
in campo aperto
ti aspetto.
Padre Adorato,
del tuo numinoso disegno
non mi meraviglia solo il segno
né la consonante
ma le tante combinazioni
di un calcolo che è il tuo alfabeto
e che tu ci ha insegnato.
Il cateto che diventa raggio,
il lato che si fa arco
ed insieme, nella perfezione del Pi greco,
sono misura alla circonferenza.
L’essenza del martin pescatore
che è crasi impropria
fra il fiume e il bosco.
Le fasi della luna
che bene conosco eppure
si fanno ogni volta nuove
nella marea.
La dea dell’appetito
che in un unico contenitore
fonde ingredienti ed amore
e mi regala la cena.
La pena figlia di mille pensieri,
l’ieri che tiene conto del domani
e da cui estraggo l’oggi.
Le tue mani,
racconto di cinque dita e un palmo,
il mare calmo nella sera,
la mia vita
somma e prodotto
di tutti gli incontri che ho voluto,
di tutte le promesse che ho mantenuto.
Nutro dentro di me
una gioia nascosta.
È una gioia incoerente
che poco o niente
ha a che fare con la realtà.
È il mio fiume ipogeo,
la fune con la quale
sul baratro sto sospeso.
È il peso che consapevolmente
decido di non portare,
il dente di leone
che io solo vedo
fare capolino dal cemento.
Un momento
nella sua corrente nuoto,
un altro mi scorre accanto
ed io so che è la
perché la sento,
ne sento il canto,
ne sento il profumo,
e mi viene da ridere
così vicina a sentirla.
E nulla, proprio nulla
mi costa
con altri condividere
questa mia gioia nascosta.
Dove sono?
Sono in un posto
dove non si prova più dolore,
nelle ore che passano senza fatica.
Sono nella bica
che aspira a farsi covone,
sono nel girone dei pazzi,
l’unico abitato
da persone felici.
Sono solo fra amici,
ché il contrario non esiste più.
Sono nelle piste
aperte dalla pazienza degli animali
che sempre conducono all’acqua.
Sono nel cono d’ombra
della montagna
che ogni mattina m’avvolge
prima di restituirmi all’astro.
Sono nell’incastro
fra i miei bisogni
e i miei desideri.
Sono nel mio ieri,
in questa gioia
sempre al mio fianco,
sono nella noia che adesso anelo,
nel banco di nuvole
che incorona la montagna lunga,
nel velo di sabbia dopo lo scirocco,
nell’arrocco di cui adesso
sono capace oltre la mia torre,
sono nelle forre,
nelle grotte,
nella seta della corrente,
sono nel torrente,
sono dovunque
respiri il mio Pianeta.
E di cosa dovrei avere paura?
Del mio Pianeta impazzito
di cui io sono la malattia?
Quando giungerà la radiazione,
lo tsunami, l’ultimo terremoto,
mi troveranno con le braccia aperte
come adesso nei giorni di pioggia,
come oggi che soffia maestrale.
E di cosa dovrei avere paura
a questo punto della mia vita?
Dello spauracchio della morte
che qualcuno con insistenza agita
davanti al mio volto?
Non fosse che
cento volte sono già morto
e cento resuscitato
e sempre c’era qualcuno
a spingere via la pietra dal sepolcro,
sempre qualcuno a dire:
“dategli da mangiare,
non era morto, dormiva,
e adesso ha fame”.
Di cosa dovrei avere paura?
Se tanto ho vissuto,
se tanto ho amato,
se tanta acqua
ho versato a dissetare,
tanto cibo ho preparato a sfamare.
Volete che domani
non ci sia qualcuno
con un piatto pronto per me,
un bicchiere pieno,
un letto pulito
e rifatto con cura?
Di cosa dovrei avere paura?
Nel giorno che inizia,
nella sera che si inoltra e giunge
al termine di una giornata
con una promessa di baci
e parole attente
dette a voce bassa.
Nella notte in cui ancora mi è dato
di carezzarvi i capelli,
di guardarvi nel sonno immersi,
di dirvi piano, dopo un sussulto:
“non è niente, ci sono qua io,
ritorna a dormire”.