Nel fiume

Nel fiume

E dopo tanto

sento nuovamente

la tua voce,

sento il tuo canto.

E in un momento

sono ancora tuo,

solo cosa

fra le cose,

solo sasso

su cui scorre l’acqua.

Tornerò al mondo

in cui sono,

in cui esisto,

nel quale la tua voce

non sento più

e ansia precoce

scorre i miei giorni.

Non fosse

per questo abbraccio,

per questo mio

essere andato,

non fosse

per questi ritorni,

per questo breve

non essere stato.

L’ottavo giorno

Stasera sono stanco
e mi manca la rabbia,
mi manca il coraggio.
Abbi pazienza fino a domani
quando dentro il mio zaino
ciò che adesso mi manca
sono certo riapparirà.
Per stanotte però
ti chiedo un dono
mai chiesto prima:
lascia che ti affidi,
per una notte sola,
il monte,
nelle tue mani ricevi
il fiume,
con le tue ali proteggi
il bosco.
Non farlo di nascosto,
ti prego,
con voce acuta di assiolo
sveglia gli uomini che dormono
e mostra loro
che ancora adesso,
dopo tanto tempo,
ogni cosa o essere
hai a cuore e chiami per nome,
il tuo fiato e la tua saliva
ad impastare fango,
che alla fine di questa notte,
sfiorando i miei occhi,
alla luce dirai di essere
e la luce sarà.

Cicatrice

E quella cicatrice
fu confine
che una volta varcato
non consentì ritorno.
Fu bisettrice
che un’aria unica divise
per farne due vite:
ingiustamente esigua la prima,
immeritatamente lunga la seconda.
C’è chi dice
che questa croce da penitente,
come un monito,
da allora mi porto sulla schiena.
Io spettatore attonito,
tu attrice
morta sulla scena.

Considera

Amico

che come me

cammini i sentieri

considera:

se ieri

troppo a lungo

sotto gli alberi

incedemmo,

troppo

in forre strette

invisibili ai più,

troppo

dove corre

un fiume segreto

e sul greto

solo granchi e felci.

Oggi,

stanchi,

ti ricordo,

per quel che vale,

che quando fosti

sulla soglia

della mia casa,

il sale, il pane,

l’acqua e un letto

ti ho offerto.

Adesso

fuori dalla selva

ti chiamo,

per dare, dire,

considerare,

fuori dalla selva,

in campo aperto

ti aspetto.

Calcolo combinatorio

Padre Adorato,
del tuo numinoso disegno
non mi meraviglia solo il segno
né la consonante
ma le tante combinazioni
di un calcolo che è il tuo alfabeto
e che tu ci ha insegnato.
Il cateto che diventa raggio,
il lato che si fa arco
ed insieme, nella perfezione del Pi greco,
sono misura alla circonferenza.
L’essenza del martin pescatore
che è crasi impropria
fra il fiume e il bosco.
Le fasi della luna
che bene conosco eppure
si fanno ogni volta nuove
nella marea.
La dea dell’appetito
che in un unico contenitore
fonde ingredienti ed amore
e mi regala la cena.
La pena figlia di mille pensieri,
l’ieri che tiene conto del domani
e da cui estraggo l’oggi.
Le tue mani,
racconto di cinque dita e un palmo,
il mare calmo nella sera,
la mia vita
somma e prodotto
di tutti gli incontri che ho voluto,
di tutte le promesse che ho mantenuto.

Una gioia nascosta

Nutro dentro di me
una gioia nascosta.
È una gioia incoerente
che poco o niente
ha a che fare con la realtà.
È il mio fiume ipogeo,
la fune con la quale
sul baratro sto sospeso.
È il peso che consapevolmente
decido di non portare,
il dente di leone
che io solo vedo
fare capolino dal cemento.
Un momento
nella sua corrente nuoto,
un altro mi scorre accanto
ed io so che è la
perché la sento,
ne sento il canto,
ne sento il profumo,
e mi viene da ridere
così vicina a sentirla.
E nulla, proprio nulla
mi costa
con altri condividere
questa mia gioia nascosta.

Il perdono

Per lungo tempo ho pensato

che il peccato peggiore fosse

non chiedere perdono.

Non in giorni, non in ore,

ma in appena qualche secondo

qualcuno mi ha spiegato

che in fondo

l’unico vero peccato al mondo

sta nel rifiutare il dono,

nel non perdonarsi,

nel non accettare il perdono.

Dove sono?

Dove sono?

Sono in un posto

dove non si prova più dolore,

nelle ore che passano senza fatica.

Sono nella bica

che aspira a farsi covone,

sono nel girone dei pazzi,

l’unico abitato

da persone felici.

Sono solo fra amici,

ché il contrario non esiste più.

Sono nelle piste

aperte dalla pazienza degli animali

che sempre conducono all’acqua.

Sono nel cono d’ombra

della montagna

che ogni mattina m’avvolge

prima di restituirmi all’astro.

Sono nell’incastro

fra i miei bisogni

e i miei desideri.

Sono nel mio ieri,

in questa gioia

sempre al mio fianco,

sono nella noia che adesso anelo,

nel banco di nuvole

che incorona la montagna lunga,

nel velo di sabbia dopo lo scirocco,

nell’arrocco di cui adesso

sono capace oltre la mia torre,

sono nelle forre,

nelle grotte,

nella seta della corrente,

sono nel torrente,

sono dovunque

respiri il mio Pianeta.

E di cosa?

E di cosa dovrei avere paura?

Del mio Pianeta impazzito

di cui io sono la malattia?

Quando giungerà la radiazione,

lo tsunami, l’ultimo terremoto,

mi troveranno con le braccia aperte

come adesso nei giorni di pioggia,

come oggi che soffia maestrale.

E di cosa dovrei avere paura

a questo punto della mia vita?

Dello spauracchio della morte

che qualcuno con insistenza agita

davanti al mio volto?

Non fosse che

cento volte sono già morto

e cento resuscitato

e sempre c’era qualcuno

a spingere via la pietra dal sepolcro,

sempre qualcuno a dire:

“dategli da mangiare,

non era morto, dormiva,

e adesso ha fame”.

Di cosa dovrei avere paura?

Se tanto ho vissuto,

se tanto ho amato,

se tanta acqua

ho versato a dissetare,

tanto cibo ho preparato a sfamare.

Volete che domani

non ci sia qualcuno

con un piatto pronto per me,

un bicchiere pieno,

un letto pulito

e rifatto con cura?

Di cosa dovrei avere paura?

Nel giorno che inizia,

nella sera che si inoltra e giunge

al termine di una giornata

con una promessa di baci

e parole attente

dette a voce bassa.

Nella notte in cui ancora mi è dato

di carezzarvi i capelli,

di guardarvi nel sonno immersi,

di dirvi piano, dopo un sussulto:

“non è niente, ci sono qua io,

ritorna a dormire”.