Cose che durano una vita

Cose che durano una vita:
una matita che porto sempre in tasca
assieme ad un temperino
e ad un taccuino
buono per i pensieri fugaci.
Il tuono che annuncia la pioggia
ed io che mi svesto
e nudo le do il benvenuto.
Il primo minuto
in cui ho visto i miei figli,
i gigli, i giaggioli, le orchidee
nelle primavere della mia terra.
La notte in cui scoppiò la guerra
e il giorno in cui la guerra smise.
La prima volta che Vera mi sorrise
(che non accade tanto spesso),
il nesso preciso fra il dire e il fare.
Volare sul Palatimone,
il timone diritto e la prua testarda
di quella barca che chiamo coerenza,
la presenza delle mie due madri
Incessante in case e parole.
I ladri e lo sposo
che possono giungere
in qualunque momento
e per i quali l’olio risparmio.
Il cimento che aspetto da sempre,
un pensiero retto, un lavoro ben fatto
che rendono il sonno profondo,
il secondo in cui incontrai il fiume
e il mondo per me cambiò per sempre
e mi sembrò di capire la lingua di Dio.
Il mio credere, il mio raccontare,
il mio condurmi stanco fino a sera
e d’improvviso la primavera
scorgere in un canto.
Tanto e tante altre ancora
sono le cose che dimenticare non posso
e che durano una vita.

Gabbiani e poiane

Intrecciano cerchi

gabbiani e poiane.

Così per giorni,

per settimane, per anni,

nei cieli di questa casa.

Sul confine del tempo

riemergono appena

ricordi e motivi lontani,

vane recriminazioni.

Poiane e gabbiani

intrecciano cerchi

nei cieli di questa casa.

Carezze tante

Finché un respiro mi resta

su questo puntino

nel braccio di questa galassia

un laccio spero mi costringa

ad un bacio,

ad un abbraccio,

ad una carezza.

Ché dovesse spegnersi

quell’unico respiro

almeno un bacio,

almeno un abbraccio,

almeno una carezza

avrò dato.

Ché dovesse quel respiro

diventare brezza,

voi, che sullo stesso puntino

in questo istante siete,

allora baci, abbracci

e carezze tante

darete.

ODE al tutore

ODE AL TUTORE
È tempo di consumare un altro rito stagionale. Il mio sedicesimo orto estivo è in campo già da diversi giorni e presto, per prime le piante di pomodoro poi tutte le altre, avranno bisogno di un supporto, di un tutore che le faccia crescere diritte, che le aiuti a resistere ai capricci del vento. Allora, come ogni anno, vado nel Bosco dei Cento Acri, vado con una corda e una cesoia, vado in un angolo che solo io conosco a raccogliere canne. E mentre le raccolgo, con un taglio a flauto proprio alla base, penso a quanto bella, e poetica, e profondamente mia sia questa idea del tutore che seppure privo di una relazione genetica con quelli che sostiene, li sostiene comunque perché un’altra è la relazione che lo anima. E mentre ci penso so già che ancora una volta sta accadendo quello che spesso accade quando dal pensare passo al narrare, quando la mia deformazione professionale mi porta a spostarmi da una riflessione agronomica ad una metafora della vita di noi esseri umani.
Allora oggi voglio celebrare tutti i tutori: la mia seconda madre, prima di tutti, i maestri che ho avuto la fortuna di incontrare sulla mia strada, i miei amici Anna e Salvo, i miei amici Gemma e Riccardo e per finire la famiglia finlandese che da 8 mesi si prende cura del mio Adorato né più né meno che se fosse figlio loro. Oggi voglio celebrare queste persone che con la vita non hanno stretto un patto di sangue ma per l’appunto un patto di vita e della vita si occupano, spesso mettendo in discussione la loro stessa vita, facendo un po’ come le mie canne che sul campo ad ogni stagione si rovinano sempre di più, si consumano, con l’intento incrollabile di condurre coloro che orientano verso il sole, di accompagnarli in luoghi dell’anima che spesso i genitori non sono nemmeno in grado di immaginare.

Scorci

Si aprono scorci sulla mia casa,
scorci sulla mia vita,
sprazzi di luce,
spazi di ricordi.

Un attimo sono perso
e l’altro già mi ritrovo
e mi muovo
fra la memoria e la premonizione.

Ogni azione da sola vale un giorno
ed ogni giorno
mi avvicina e mi allontana
con passo uguale.

Ciò che vale, alla fine,
è quel che sono stato con continuità,
un riconoscimento alla mia età
e al mio instancabile procedere
che è niente e tutto.

Ogni giorno

Il Grande mi chiedeva:
“papà mi asciughi i capelli?”.
Poggiava la sua testa
prima sulla mia pancia,
poi, col tempo, sul mio petto.
Fosse ancora qui continuerei
a ripetere il rito senza stancarmi,
non fosse che dovrei io adesso
poggiargli sul petto la testa.

Il Piccolo ogni mattina mi chiede:
“papà mi allacci le scarpe?”.
E come fanno i cuccioli
si mette a pancia all’aria
e le suole poggia
sulle mie ginocchia.
Dovrei insegnargli?
Dovrei dirgli che impari
ché il tempo è venuto?
Gli dico solo
di mettere il piede dritto
e compio in fretta quel rito
che dà ragione al tempo
e torto all’età.

A questo corpo morto
ancora per un poco
ancoro la nostra barca
che anche ferma
varca ogni spazio
per giungere lì
dove io sono ancora padre
e ancora figlio tu,
ogni giorno di meno,
ogni giorno di più.

E’ un attimo

E’ un attimo.

L’orto fresato ad arte.

Una malva superstite

che sarà l’ultimo testimone

di un inverno selvaggio.

Le api che fingono un involo.

Le canne che aspettano

il proprio turno.

La zagara all’arancio.

Una promessa di albicocche.

La prima calla.

E un alba incerta

apre la strada al sole

che da solo scalderà

tutto ciò che ha bisogno

di calore.

E’ un attimo

e sembra vederlo

l’enorme sigillo di Dio

che imprime il suo segno

come a dire

che non è opera sua

ma ad essa la divinità

concede l’autorizzazione,

affida un compito.

E’ un attimo, dicevo.

Sui sassi dello Zingaro

Oggi danzo
sui sassi dello Zingaro.
È danza goffa, lo so,
perché mi manca
la stoffa del ballerino.
Incerti infatti
sono i miei passi,
incerto persino il cammino.
Si piega l’anca,
si torce il ginocchio,
eppure il mio occhio
danza continua a vedere,
il mio cuore
musica a sentire.
Lasciatemi dunque dire,
un po’ baro
e un po’ mestatore,
(forte della lessicologica
ma non della sintassi)
che non zoppico,
non incespico,
non inciampo,
ma bensì oggi danzo
sui sassi dello Zingaro.