Su “I sommersi ed i salvati” Primo Levi racconta la storia di Chaim Rumkowski, colui che fra il 1940 e il 1944 fu il “Presidente” del ghetto di Lodz. In quei quattro anni, mentre migliaia di persone morivano di fame, privazioni di ogni genere, malattie, lui, con il supporto e l’accondiscendenza dei tedeschi si fece “re” di quel luogo, con tutti quelli che sono i segni, i privilegi e le qualità che secondo lui un re doveva avere.

Quando nel 1944 i tedeschi cominciano la liquidazione del ghetto, trasferendo la popolazione ormai decimata ad Auschwitz, a lui non viene concessa una sorte diversa. Una delle possibili conclusioni della sua storia (in questo non esiste una versione unica) considera la possibilità che a lui e alla sua famiglia venga riconosciuto il privilegio di viaggiare fino al lager su una carrozza speciale attaccata in coda al trasporto principale.

Dalle pagine del libro e a conclusione del capitolo Levi così ci ammonisce:

Chi è Rumkowski? Non è un mostro, e neppure un uomo comune; tuttavia molti intorno a noi sono simili a lui. I fallimenti che hanno preceduto la sua “carriera” sono significativi: gli uomini che da un fallimento ricavano forza morale sono pochi. Mi pare che nella sua storia si possa riconoscere in forma esemplare la necessità quasi fisica che dalla costrizione politica fa nascere l’area indefinita dell’ambiguità e del compromesso. Ai piedi di ogni trono assoluto gli uomini come il nostro si affollano per ghermire la loro porzioncina di potere: è uno spettacolo ricorrente, ritornano alla memoria le lotte a coltello degli ultimi mesi della seconda guerra mondiale, alla corte di Hitler e fra i ministri di Salò; uomini grigi anche questi, ciechi prima che criminali, accaniti a spartirsi i brandelli d’una autorità scellerata e moribonda. Il potere è come la droga: il bisogno dell’uno e dell’altra è ignoto a chi non li ha provati, ma dopo l’iniziazione, che (come per Rumkowski) può essere fortuita, nasce la dipendenza e la necessità di dosi sempre più alte; nasce anche il rifiuto della realtà e il ritorno ai sogni infantili di onnipotenza. Se è valida l’interpretazione di un Rumkowski intossicato dal potere, bisogna ammettere che l’intossicazione è sopraggiunta non a causa, ma nonostante l’ambiente del ghetto; che cioè essa è così potente da prevalere perfino in condizioni che sembrerebbero tali da spegnere ogni volontà individuale. Di fatto, era ben visibile in lui, come nei suoi modelli più famosi, la sindrome del potere protratto e incontrastato: la visione distorta del mondo, l’arroganza dogmatica, il bisogno di adulazione, l’aggrapparsi convulso alle leve di comando, il disprezzo delle leggi.
Tutto questo non esonera Rumkowski dalla sua responsabilità. Che dall’afflizione di Lódz un Rumkowski sia emerso, duole e brucia; se fosse sopravvissuto alla sua tragedia, ed alla tragedia del ghetto che lui ha inquinata sovrapponendovi la sua immagine di istrione, nessun tribunale lo avrebbe assolto, né certo lo possiamo assolvere noi sul piano morale. Ha però delle attenuanti: un ordine infero, qual era il nazionalsocialismo, esercita uno spaventoso potere di corruzione, da cui è difficile guardarsi. Degrada le sue vittime e le fa simili a sé, perché gli occorrono complicità grandi e piccole. Per resistergli, ci vuole una ben solida ossatura morale, e quella di cui disponeva Chaim Rumkowski, il mercante di Lódz, insieme con tutta la sua generazione, era fragile: ma quanto forte è la nostra, di noi europei di oggi? Come si comporterebbe ognuno di noi se venisse spinto dalla necessità e in pari tempo allettato dalla seduzione?
La storia di Rumkowski è la storia incresciosa e inquietante dei Kapos e dei funzionari dei Lager; dei gerarchetti che servono un regime alle cui colpe sono volutamente ciechi; dei subordinati che firmano tutto, perché una firma costa poco; di chi scuote il capo ma acconsente; di chi dice “se non lo facessi io, lo farebbe un altro peggiore di me”.
In questa fascia di mezze coscienze va collocato Rumkowski, figura simbolica e compendiaria. Se in alto o in basso, è difficile dire: lui solo lo potrebbe chiarire se potesse parlare davanti a noi, magari mentendo, come forse sempre mentiva, anche a se stesso; ci aiuterebbe comunque a comprenderlo, come ogni imputato aiuta il suo giudice, anche se non vuole, anche se mente, perché la capacità dell’uomo di recitare una parte non è illimitata.
Ma tutto questo non basta a spiegare il senso di urgenza e di minaccia che emana da questa storia. Forse il suo significato è più vasto: in Rumkowski ci rispecchiamo tutti, la sua ambiguità è la nostra, connaturata, di ibridi impastati di argilla e di spirito; la sua febbre è la nostra, quella della nostra civiltà occidentale che “scende all’inferno con trombe e tamburi”, ed i suoi orpelli miserabili sono l’immagine distorta dei nostri simboli di prestigio sociale. La sua follia è quella dell’Uomo presuntuoso e mortale quale lo descrive Isabella in Misura per misura, l’Uomo che,

…ammantato d’autorità precaria,
di ciò ignaro di cui si crede certo,
– della sua essenza, ch’è di vetro -, quale
una scimmia arrabbiata, gioca tali
insulse buffonate sotto il cielo
da far piangere gli angeli.

Come Rumkowski, anche noi siamo così abbagliati dal potere e dal prestigio da dimenticare la nostra fragilità essenziale: col potere veniamo a patti, volentieri o no, dimenticando che nel ghetto siamo tutti, che il ghetto è cintato, che fuori del recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il treno“.

3 pensieri su “E poco lontano aspetta il treno

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