Nel mio giardino ci sono due lecci.

Non è vero che le piante non si muovono, queste mi seguono praticamente da sempre.

Ho raccolto le ghiande su un sentiero del Khuttinar, a Pantelleria, almeno 30 anni fa. Ho dimenticato tante cose della mia vita passata eppure ricordo ancora perfettamente il momento in cui ho preso una manciata di ghiande da terra e con esse ho riempito una tasca del mio zaino.

Ho proseguito allora verso una misteriosa caletta da pochissimi conosciuta, in un pomeriggio si settembre, con i miei scarponi che facevano scricchiolare la pomice e il basalto.

Ho proseguito dentro la mia vita.

Ho piantato le ghiande in vasi che sono rimasti sulla terrazza della mia vecchia casa per anni. I lecci si sono adattati a poca terra e poco sole. Sono piante frugali in fondo, ma non era quello il loro posto.

Poi sono andato a vivere in campagna. Ricordo ancora lo sgomento del traslocatore quando si è reso conto che il mio non era un trasloco di mobili e masserizie, ma di piante. Il camion alla fine era una specie di Arca di Noè vegetale che attraversava la città, una moto di Marcovaldo moltiplicata per 100.

Allora ho dato alle mie piante una nuova vita. Non sono “naturalmente” figlie mie ma, come dice un mio vecchio amico, ciò che conta alla fine è chi le ha allevate.

Uno dei lecci è stato trapiantato proprio all’ingresso del patio. E’ cresciuto senza altre piante attorno. Gode dell’acqua che irriga il prato, si lascia modellare dai venti del nord, si offre al calore del sud con tutto se stesso. E’ diventato un albero maestoso, robusto, una energia potente lo pervade e in questi giorni ci regala la sua fioritura discreta e delicatissima.

L’altro leccio invece è davanti al patio. La casa ostacola un po’ la luce che arriva da sud e lui è circondato da molte altre piante più vecchie e possenti di lui. Eppure il secondo leccio di necessità fa virtù. E’ esile e svettante: cresce così, impegnato come è a cercare luce oltre le chiome degli altri alberi. Questa condizione gli ha conferito leggiadria e bellezza che lo rendono unico e speciale fra le piante che lo circondano.

Il primo leccio è forte, costante e resistente nella relazione con le meteore, eppure la sua forza e la sua resistenza costituiscono in qualche modo la sua debolezza. Si intravede una curva, il segno troppo evidente di una disponibilità a farsi modellare dalle intemperie, di una devozione al sud che rischia di essere compromettente.

Il secondo leccio trasforma la sua debolezza in forza. La sua pervicacia ne fa un compagno aggressivo e pericoloso per la altre piante, la sua ambizione al cielo un vicino invadente e un “ladro” di luce. Più che esile è diritto, non si allunga ma si eleva.

C’è poi un terzo leccio. E’ una pianta della quale mi vergogno. Non mi vergogno di lei, non mi vergogno per causa sua, mi vergogno di me stesso in relazione a lei.

Appartiene alla stessa famiglia delle altre eppure da sempre è costretta all’interno di un microscopico vaso. Nel mio giardino non c’è più spazio per un altro, grande, leccio. Non esprime le sue potenzialità. Io non ho la forza ne le risorse per coltivarlo come ho fatto con gli altri due, o almeno di questo mi convinco.

Il terzo leccio è ai piedi del caco selvatico che aspetta.

Chissà perché ogni volta che inizio parlando di alberi finisco per parlare di persone.

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