Per stagione e per stanchezza

Per stagione e per stanchezza

In situazioni normali la stagione dà i suoi segnali. Le temperature calano, il cielo comincia ad impavesarsi di nubi che restituiscono al ciclo dell’acqua ciò che il ciclo aveva per un poco consegnato al cielo, il vento si fa più rigido e retto, il giorno si arrende alla notte.

E’ allora che le piante capiscono che l’autunno è arrivato, giunge la stagione nella quale cambiare colore, spogliarsi dalle foglie, predisporsi alla notte invernale durante la quale dormire, spegnersi, morire apparentemente.

Ma quest’anno dov’è questo segnale? Immersi, se non in una perenne estate, almeno in una novella primavera che più non tiene conto dell’alternarsi “cristiano” delle stagioni, da dove le piante traggono il segnale che le invita a prepararsi al tempo nuovo, che è anche il tempo ultimo, di un segmento che la natura ha voluto curvare e sequenziare dentro una spirale infinita? Quale voce giunge alle invisibili e sensibilissime orecchie delle piante per dire loro “è tempo di perdere l’abito estivo, è tempo di addormentarsi, è il tempo di lasciarsi andare all’entropia dell’universo che la vita (e solo quella) proverà a mettere in discussione fra qualche mese”? Perché nonostante tutto le piante in questi giorni, a questa assenza di segnali stagionali, rispondono come sono da sempre abituate a fare: il verde scompare, l’oro e il carminio ricoprono prima le chiome poi il sottobosco, i sentieri, perfino le strade delle città.

Allora mi piace pensare che forse le piante non rispondono solo alla voce della stagione, forse avvertono una stanchezza insita nel tempo che trascorre, che, difficile da credere, si nutre persino della bellezza dell’estate, di una bellezza che dura “troppo a lungo”, una stanchezza che invita al sonno, che invita a “lasciare perdere”, a ritenere, più o meno consapevolmente, di avere svolto il proprio compito, attore fra miliardi di attori, nella disperata messa in scena della vita ed è possibile infine, senza sensi di colpa, senza rimpianti, cominciare la discesa del piano inclinato che conduce al caos, allo zero assoluto, al nulla.

Mi succede spesso di parlare di piante per poi rendermi conto che, in fondo, sto parlando anche di noi uomini.

Strategie riproduttive

Strategie riproduttive

Sono tanti gli errori di percezione di noi esseri umani. Molto comuni quelli che riguardano gli altri esseri viventi che, volenti o nolenti, ci accompagnano in questo lungo viaggio spaziale a bordo della nostra navicella solare chiamata “Terra”. Uno degli errori più classici è quello di pensare, per esempio, che le piante siano esseri passivi, completamente sottomessi agli animali e agli uomini, esseri per nulla reattivi e immobili per definizione. Non a caso quando vogliamo descrivere uno di noi privo delle caratteristiche tipiche di reattività e mobilità degli uomini lo descriviamo come un “vegetale”, diciamo che “vegeta”. Nulla di più sbagliato naturalmente. Ciò che ci induce in questo errore, oltre alla nostra umana insensibilità (e dire che ci riteniamo così sensibili!), è il pensare che le piante vivano all’interno dello stesso nostro flusso temporale mentre invece il tempo per loro scorre in maniera diversa da noi e questa è certamente una differenza fondamentale. Questo non vuol dire d’altra parte che alle piante (o agli animali) debbano essere attribuite emozioni o sentimenti umani (esiste anche questa deriva), bisogna piuttosto cominciare a pensarle come esseri viventi molto diversi da noi e per certi versi simili. Con noi per esempio condividono la stessa spinta riproduttiva, lo stesso irrefrenabile stimolo a perpetuare la specie e a propagarsi, quanto più è possibile, in giro per il pianeta. E per questo si sono tirate fuori tutta una serie di strategie incredibili, sicuramente consone ad esseri viventi che per lo più stanno con le radici ben piantate per terra, ma che non per questo sono meno capaci di mandare in giro i loro veicoli riproduttivi dimostrandosi così più esseri capaci di manipolazione che esseri manipolabili. La loro antichissima relazione con gli insetti (che per questo sono definiti con un termine per me bellissimo che è: pronubi), le loro affascinanti modalità di dare vita a semi in grado di sfruttare il vento, la loro capacità di produrre deliziosi frutti lassativi quel tanto che basta e con all’interno semi non danneggiabili da animali golosi e che usano questi per farsi portare qui e là e farsi alla fine depositare già fertilizzati. Oppure la meravigliosa strategia delle querce che sono addirittura riuscite a manipolare una specie di uccelli come le ghiandaie che per l’appunto di lavoro fanno quello, raccolgono ghiande, le piantano in decine di depositi e poi di inverno le recuperano per mangiarle: quel 5 per cento di ghiande che non riusciranno a trovare (neanche le ghiandaie sono sceme!) daranno vita ad altrettanti alberi. Michael Pollan nel suo bellissimo “la botanica del desiderio” arriva addirittura a teorizzare che le piante siano in grado di manipolare anche noi uomini mettendo in campo strategie che abbiano a che fare con i nostri bisogni o i nostri desideri e che determinino il loro successo riproduttivo. Nel libro racconta come secondo lui il melo, la patata, il tulipano e alcune varietà di cannabis siano riuscite nel loro scopo proprio attraverso questo tipo di manipolazione. Devo dire però che da parte mia una simpatia particolare va a quelle piante capaci di propagarsi in maniera adeguata ai loro fabbisogni non “usando” animali o uomini ma facendosi forti di loro conoscenze fisiche e specificatamente di nozioni ambientalmente apprese e geneticamente fissate che riguardano il campo dell’idrostatica. Il melone asinino per esempio. Si tratta di una pianta strisciante dalle foglie e steli setolosi che cresce sulle ripe terrose non lontane dal mare. Inesperti escursionisti ne avranno certamente fatto le spese. La pianta che ha dei frutti che somigliano appunto a minuscoli meloni accumula proprio in essi una notevole quantità di liquidi che determinano una significativa pressione idrostatica. Basta sfiorare il frutto maturo per causare l’esplosione dello stesso che non ha come obiettivo quello di produrre lividi sulle gambe delle persone ma quello di distribuire il seme il più lontano possibile. Una strategia simile utilizza anche il mio glicine anche se in questo caso il sistema funziona al contrario: il baccello comincia a seccarsi fino a quando proprio per un difetto idrico non esplode distribuendo in giro i semi che somigliano a tante pastiglie di cioccolata droste. E oggi in questa inquietante mattina di scirocco di febbraio ero immerso in una sorta di sparatoria continua prodotta dall’inarrestabile esplodere di baccelli. Peccato però che anche le strategie più raffinate non tengano conto della possibilità di diventare, nel tempo, inattuali ed obsolete. Il mio glicine non sa infatti, per testardaggine genetica, che noi uomini, nel nostro essere troppo dinamici abbiamo prodotto un fenomeno che si chiama “cambiamento climatico” e che questo scirocco inaudito è solo una presa in giro e che domani tornerà il freddo e che il seme così abilmente sparpagliato sarà solo seme sprecato. Sono certo, per questo, che quando verranno gli extraterrestri e ci processeranno per tutti i nostri crimini contro la natura il mio glicine si costituirà parte civile.

Guttazione

Guttazione

Gli uomini piangono,

gli animali forse lacrimano.

Solo ai primi

viene riconosciuta

la dignità dell’atto.

Guttazione diciamo invece

per il mondo vegetale.

Difficile definizione

non fosse che

basterebbe parlare

di pianto delle piante.

Ogni stoma una goccia,

una goccia ogni taglio.

Non all’uomo,

non all’animale,

è a queste ultime

che io assomiglio.

Irrigare e carezzare

Irrigare e carezzare

Ho scorto tante piccole piante delicate

che crescevano negli interstizi dei giorni.

Le ho lasciate lì, senza raccoglierle,

affinché, chi veniva dopo di me, potesse vederle.

Fatto è che la gente raccoglie senza darsi pena

anche ciò che non ha piantato.

Stupido io, che ostinato, me ne prendo ancora cura,

che la paura mi assale quando si alza il vento,

dovesse mai strapparle e portarle lontano.

Io che con il pianto non mi pento

di continuare ad irrigare e carezzare.

Creare-Contemplare-Comprendere: un racconto.

Creare-Contemplare-Comprendere: un racconto.

Creare

Creare…contemplare…comprendere. Il Vecchio non riusciva a togliersi dalla testa queste tre parole. Da tempo, seduto sul seggio in cima al monte, le faceva girare all’interno della sua mente, le poneva in relazione circolare, poi provava a isolarle ma quelle tornavano nuovamente a ricomporre il circolo che da tempo non lo abbandonava più.

Creare…contemplare…comprendere. Forse era la mappa, forse era il codice, forse il motto e l’indirizzo, ma nonostante tutto non riusciva a crederci. Continua a leggere “Creare-Contemplare-Comprendere: un racconto.”