Come spesso avviene durante il fine settimana, stretto fra il tetto e il cielo, quando le premure del tetto me lo hanno concesso mi sono dedicato a quelle del cielo.
Nel primo giorno del fine settimana ho completato i filari dell’orto mettendo a dimora ciò che la stagione mite era ancora disposta ad accettare. Ma soprattutto ho tolto le infestanti che già invadevano l’orto, che già sottraevano alle plantule, che fra qualche settimana saranno le protagoniste di una delle fantasmagoriche cene offerte dalla “cuoca”, la luce e le sostanze nutritive. Per lo più inermi acetoselle ma ogni tanto agguerrite piccole ortiche già dotate di minuscoli ma aggressivi vacuoli.
Nel secondo giorno del fine settimana ho dovuto eliminare un gigantesco fico d’india che a causa del peso, del vento e della terra impregnata d’acqua, ha perso la sua battaglia con la gravità, invadendo parte della stradella. Mi è venuta in soccorso la mia vecchia sega a motore e dopo qualche ora di lavoro un mucchio di cladodi giacevano al di là della recinzione già pronti a riprodurre, in quella zona e con pedissequo intento genetico, lo sradicato genitore.
Oggi e lunedì e le mie mani sono il diario di quelle due giornate. La punteggiatura del racconto sono le spine di fico d’india e le piccole ustioni d’ortica. Posso sentirle distintamente mentre pigio sui tasti, posso sentirle quando prendo un oggetto. Costituiscono in se un bel ricordo? No. Rappresentano un dolore troppo grande? No. Stanno da qualche parte in mezzo alla memoria dei giorni passati, da qualche parte fra il bisogno e il desiderio. Sono memento, sono paradigma in fondo, sono come i graffi sulle gambe alla fine di una bella escursione, sono il prolungamento nell’oggi di ciò che è stato ieri, sono sintesi di quello che la vita può permettersi, di ciò a cui, nell’esiguità del giorno e nella fugacità del tempo, possiamo aspettarci dal nostro essere umani.