Riporto di seguito il post del mio amico Michele Nardelli. Esso contiene un ragionamento che condivido completamente. La sua lucidità e la sua capacità di sintesi sono per me sempre fonte di riflessione.

Emergenza acqua, emergenza immigrati, emergenza incendi, emergenza terrorismo, emergenza vaccini, emergenza agricoltura, emergenza lavoro, emergenza terremoto, emergenza neve, emergenza inquinamento, emergenza Africa… ora anche l’orso diventa suo malgrado emergenza.

Se ogni cosa ormai è diventata emergenza significa una cosa sola: che non si sanno affrontare i problemi prima che si presentino in forma acuta. In altre parole, l’incapacità di dare risposte di sistema ai nodi del nostro tempo.

Se ci pensate, è come se ogni ambito di crisi ci cogliesse impreparati, portandoci ad occuparcene tardivamente, quando i buoi sono scappati e il danno si è consumato. L’esito è una continua rincorsa dei problemi, l’incapacità di politiche di prevenzione, risposte raffazzonate e costi di gran lunga superiori a quelli che si sarebbero avuti investendo sul futuro.

Ho imparato a sottrarmi a questa logica in più di vent’anni di impegno nella cooperazione internazionale, oggi anch’essa ridotta ad intervento di emergenza, laddove anche il mondo non governativo rincorre i finanziamenti di istituzioni che intervengono nelle aree di crisi sotto la spinta di un’opinione pubblica disattenta che si accorge delle contraddizioni quando sono scoppiate e che ha sostanzialmente smesso di pensare (e di agire) in autonomia.

Capiamoci. Non nego affatto che esistano situazioni di emergenza e non sono così cinico da pensare che di fronte agli effetti delle guerre o di catastrofi dette naturali ci si debba voltare dall’altra parte. Ma sempre, anche nelle emergenze più acute, dobbiamo saper indagare la natura degli avvenimenti, perché c’è una ragione profonda da portare alla luce, un equilibrio che si è andato spezzando per ragioni non dovute alla casualità. Sorvolando le quali si diventa parte del problema.

Se il compito dei soccorsi è della Protezione Civile, della Croce Rossa, dei Medici senza frontiere… che pure richiedono formazione e strutture adeguate (e dunque visione), quello della politica – e non mi riferisco solo ai partiti o alle istituzioni – è di agire a monte affinché ad esempio le case siano costruite a dovere e i terremoti non diventino così devastanti, il territorio sia curato facendo tesoro dei saperi delle comunità e i beni comuni non vengano sottoposti a logiche di mercato (che fine ha fatto il referendum sull’acqua?), i conflitti non degenerino violentemente investendo nel dialogo, nella diplomazia, nell’interposizione se occorre, ma prima ancora nella giustizia sociale e nel riconoscimento dei diritti. E nell’immaginare – di fronte al surriscaldamento del pianeta – nuovi modelli di sviluppo invece che rincorrere il paradigma della crescita infinita che ci ha portati all’attuale insostenibilità nel rapporto con le risorse del pianeta.

Se passiamo da un’emergenza all’altra è il fallimento della politica, tanto nel non aver attivato scelte di prevenzione, quanto nel non aver attrezzato sul piano della cultura del limite (e del principio prudenza) la propria comunità. Perché sarebbe sciocco pensare che la politica possa fare il suo dovere se la maggioranza delle persone non si occupano del loro presente e del futuro delle generazioni a venire. Che, nell’interdipendenza, non è solo il proprio giardino ma quello planetario.

In fondo – ammettiamolo – l’emergenza ci piace. Almeno fino a quando a pagarne le conseguenze non siamo noi in prima persona. Allora sappiamo anche indignarci, ma nell’emergenza anche i conflitti diventano spuri. Siamo attirati dalle emergenze e dai titoli a tutta pagina dei giornali. Ci fa sentire fortunati ed anche buoni, tanto… per lavarci la coscienza bastano qualche straccio dismesso o pochi euro al mese, salvo poi scandalizzarci se i nostri beneficiari non si accontentano o magari rivendicano la loro dignità di persone.

L’emergenza è la rinuncia al cambiamento.

5 pensieri su “Emergenza, la rinuncia al cambiamento

  1. Se ci pensiamo bene, basterebbe una guerra a rimettere tutto a posto. Ogni emergenza (moti rivoluzionari europei della metà del diciannovesimo secolo, crollo dell’economia degli anni trenta del ventesimo secolo) ha sempre prodotto una guerra, a seguito della quale ci sono stati periodi di crescita e di progresso.
    Sinceramente non me lo auguro, io sono nata nell’immediato dopoguerra e una guerra mi fa paura. Abbiamo smesso di prevenire e di fare manutenzione ormai da cinquant’anni. Ora bisognerebbe ricostruire, ma non si è più in grado di rattoppare ciò che è degenerato al punto da non essere nemmeno più riciclabile.

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