In questo tempo di tragedia collettiva si riducono fino quasi a scomparire categorie in altri tempi care agli uomini. La forbice della nostra esistenza si restringe alla sola zona grigia, alla fascia intermedia ed esclude da un lato i santi, i buoni, gli eroi (che in pochi continuano forse ad abitare unicamente lo spazio della sanità e della medicina) e dall’altro i cattivi, i mostri, i demoni spietati. Resta unicamente questa terra di mezzo nella quale ci troviamo ad essere e soprattutto ci sentiamo solo miseri, solo smarriti, solo depressi.
Nessuno ci ha spiegato che è questo il tempo in cui è la specie e non più l’individuo a giocare la sua partita.
Il tempo in cui senza saperlo siamo posti davanti la scelta (e chi mi conosce sa quanto io rifugga la metafora bellica) di salvare noi stessi (forse) oppure mille altri senza volto e senza nome.
Il tempo in cui non esiste spazio per la ribalta mediatica, o per la fama social ma soltanto per produrre un lavoro costante, continuo e disciplinato all’interno dei luoghi di lavoro, delle scuole, delle famiglie inteso a mettere al centro del proprio pensiero e del proprio cuore la parola “responsabilità”.
Il tempo che non si offre al viaggio ma al raccoglimento, non alla visione ma al progetto, dove forse non trova spazio neanche la speranza ma nel quale ad ogni costo deve albergare la solidarietà.
Il tempo in cui, a chi spetta, deve compiere un atto solitario e anonimo come il vaccinarsi non per se stesso ma per gli altri.
Il tempo in cui non possiamo ambire a parole scolpite su tavole di pietra né a frasi che preannunciano la vittoria incise nel cielo e fra le nubi.
Il tempo in cui ci viene consegnato invece un unico viatico, un’unica garanzia posta a difesa della specie, un unico vaticinio nel quale il “se” quasi si annulla per lasciare spazio solo ad un carme collettivo privo di rima e di poesia ma impregnato di un senso profondo e spietato: “i benefici sono superiori ai rischi”.