Era la mia dodicesima estate. Quella del dopo, quella del “da qui in poi”. Lungo la riva del fiume che avrebbe attraversato tutta la mia vita. Campo scout, in otto dentro la stessa tenda. Afflitto da un sonnambulismo incoercibile che un medico ottimista disse sarebbe finito da li a poco (e invece dura ancora oggi). Una notte di quelle mi sono svegliato. Un attimo per capire dove ero, cosa stava succedendo, per percepire il lento, rassicurante fluire del fiume a pochi metri dalla tenda. Ma a quel punto mi rendo conto che c’è qualche cosa di strano. E’ buio e scopro con le mani quello che non posso vedere con gli occhi: sono completamente vestito. E non vestito a caso. Ho indosso l’uniforme completa: i pantaloncini, i calzettoni, la camicia, il fazzolettone e anche il cappello. Poi tocco i piedi e ho persino gli scarponcini e gli scarponcini sono allacciati con il doppio nodo. Avete presente il doppio nodo? Uno fa il nodo normale delle scarpe e poi prende le due asole e le stringe ancora una volta attraverso un nodo semplice. Per una ragione misteriosa ed incomprensibile, nel sonno, mi ero vestito di tutto punto ed avevo, alla fine, allacciato gli scarponi con il doppio nodo.
Non ho mai avuto cura nella mia vita delle precauzioni. Mai pensato ad accumulare per il domani, mai avuto interesse nei confronti delle assicurazioni, delle garanzie e di tutto ciò che rendesse la prospettiva più probabile, il futuro un po’ meno incerto.
L’unica cosa che ho sempre fatto è il doppio nodo alle scarpe. Quella notte lo feci persino nel sonno, stamattina ancora, dopo tanti anni, come tutte le mattine in cui ho messo scarpe con i lacci, lo ho fatto nuovamente prima di andare in montagna. Prima tutte le incombenze del mattino, attraverso una serie che conosco bene fatta soprattutto di alimentazioni di svariati esseri viventi che popolano la mia casa, sono giunto al momento in cui, fuori dalla casa, dovevo mettere gli scarponi. Chinato verso terra ho dedicato quel secondo in più che ci vuole per il doppio nodo, quella cura aggiuntiva che da sempre dedico all’unica azione che destino ad una sicurezza aggiuntiva, ad un “non si sa dovesse servire…” che comincia con una scomparsa precoce durante l’undicesima estate e che nel tempo mi ha accompagnato in luoghi dove avere o non avere scarpe, che si leghino o meno, ha una stretta connessione con la sopravvivenza.
Il Greco invita un Primo Levi incapace di fare fronte da solo ai propri bisogni a non preoccuparsi in primo luogo del cibo, ma di pensare prima di tutto alle scarpe. Perché poi con le scarpe è possibile recuperare il cibo, ma non viceversa.
Un doppio nodo, che tenga assieme i lembi di una scarpa buona per sfuggire al terremoto o alla tsunami, buona per prendere la via della montagna dovesse giungere alle porte un nemico più o meno atteso, un doppio nodo che leghi a me coloro che amo con la certezza aleatoria e un po’ disperata con cui le stringhe assicurano le scarpe ai nostri piedi.