Ci sono luoghi, manufatti, paesaggi che “potrebbero” costituire l’identità di un popolo. Dico “potrebbero” perché ciò succede solo quando la potenziale identità è figlia e madre, al tempo stesso e in un rapporto circolare, di una cultura che con essa fa il paio. Se l’identità, determinata dalla somma delle componenti di ciò che gli anglosassoni con una felice sintesi definiscono come il “patrimonio” (heritage), non produce la cultura di un popolo e a sua volta la coltura da essa prodotta non fa proprio questo patrimonio considerandolo uno dei suoi pilastri portanti, allora assisteremo all’esistenza aleatoria di un patrimonio, alla perdita dell’identità e alla nascita, per altre vie, di una sub cultura assolutamente scollegata dal resto. In questo scenario, che molto spesso mi sembra assomigliare al nostro scenario siciliano, in cui l’identità si è perduta e la cultura non si è formata, rileviamo quotidianamente quello che accade al nostro patrimonio, destinato a trascinarsi sospeso all’interno di un “non tempo” e sotto forma di “rudere” fino al momento in cui non sia il tempo, appunto, ad avere ragione di esso oppure fino a quando, per motivi vari, non venga intercettato dalla sub cultura dominante e da essa venga trasformato in “altro” secondo i suoi parametri di riferimento. Basta andare in giro per la Sicilia per vedere quanto del nostro “patrimonio ambientale e culturale” (perché noi latini che non abbiamo il dono della sintesi lo chiamiamo così) si trovi oggi in queste condizioni.