Quando i leoni entrarono nell’arena noi avevamo già formato con i nostri corpi un cerchio al centro di essa, i vecchi e i bambini all’interno, e ci tenevamo abbracciati l’uno all’altro nel momento che sapevamo essere l’ultimo, senza speranza ci abbracciammo prima che i leoni ci vedessero e cominciassero il loro banchetto.
Quando il vulcano scagliò contro il cielo la sua nube ardente che poi come fulmine ricadde sulla città, a quelli che non avevano capito, a quelli che non avevano potuto andare, restò appena il tempo di abbracciarsi: la madre con il figlio, l’amato con l’amata, lo sconosciuto allo sconosciuto; e così spesso ci avete ritrovato secoli dopo, ancora abbracciati.
Quando all’unisono riaprirono i vagoni piombati e per la prima volta sentimmo quelle urla agghiaccianti e il latrare dei cani non ci rimase altro da fare se non abbracciarci, e ci abbracciavamo ancora mentre eravamo sulla banchina, e ancora ci abbracciavamo mentre quegli uomini facevano di tutto per rompere quegli abbracci a forza di colpi, a forza di spinte.
Quando anche l’ultima fioca lampada non resse ai colpi che le bombe invisibili ma terribilmente presenti infliggevano al guscio di cemento nel quale ci eravamo nascosti, quando le sirene dell’antiaerea sembravano gli ultimi suoni rimasti ad attraversare questo mondo, ci abbracciammo per lenire lo sconforto, ci abbracciamo perché l’incertezza dell’oggi si sciogliesse nel calore dell’abbraccio.
Quando vedemmo che il barcone si piegava da un lato e i primi di noi precipitavano in acqua prima di tutto pensammo ad abbracciarci, per l’ultimo saluto magari, per l’ultimo ricordo da nutrire nella stretta, un abbraccio fu l’ultima delle nostre azioni, l’abbraccio che il mare non tollera, l’abbraccio che il mare non sostiene, per provare a portare ancora un metro in avanti i bambini, per portare a tenere un metro più in alto il fratello.
Vi ricordate quando fummo sul monte? Sul monte del “buon fato” (che solo questo dobbiamo credere oggi voglia dire il suo nome) e ci mettemmo tutti in fila nella grande sala, per ricevere gli abbracci di tanta splendida gioventù che arrivava da ogni luogo del pianeta. E fummo persino disposti a pagarli quegli abbracci, non a loro naturalmente, ma offrimmo pegno per fare giungere abbracci a chi troppo lontano per riceverne quella sera.
Oggi che ancora una volta il male ci incalza ci dicono che abbracciarsi non è possibile. Non so, in questo tempo, quante e quali bugie ci stanno dicendo. Questa è certamente una di quelle.
Dovrebbero spiegarci piuttosto che non bisogna smettere di abbracciarsi, meno che mai adesso, ma che bisogna solo trovare modi nuovi, recuperarne di vecchi.
Non ci dicono che ci sono almeno tre modi per farlo.
Possiamo pensare/pregare, ogni mattina quando ci svegliamo possiamo rivolgere un pensiero, una preghiera a chi non vediamo da tempo, a chi rischia di non potere condurre la propria vita in maniera dignitosa, a chi è ammalato, a chi è solo, a chi amiamo e non ce lo sente dire da troppo tempo. Mettere così in moto una nuova, laica, comunione dei santi che possa ricostituire il corpo mistico di questo pianeta, da più parti dilaniato e percosso.
Possiamo agire, fare una chiamata da troppo tempo rimandata, mandare un messaggio, scrivere una email o anche una lettera vincendo la pigrizia che, in questo momento, ci vuole al fondo della china entropica. Possiamo cucinare un piatto gustoso e preparato con cura e portarlo a qualcuno che in quel momento possa gradirlo particolarmente, mettere da parte del denaro dovesse domani qualcuno averne bisogno, imparare ad abbracciare con le parole proprio come hanno fatto ieri le meravigliose maestre del mio bambino anche attraverso lo schermo di un computer, non smettere di incontrarsi, per come questo tempo consente, con coloro che ambiscono, se non a popolare la città dell’amore, quanto meno ad abitare la terra dei giusti, ed insieme continuare a produrre idee, a produrre sogni che nel contempo possano rendere migliori le altrui e le nostre vite.
Infine non dobbiamo rinunciare all’abbraccio li dove è ancora possibile, nella nostra famiglia, alla donna che amiamo, ai figli che ogni sera attorno alla tavola guardiamo con tutto l’amore che l’incertezza e l’aleatorietà della nostra condizione alimentano. L’abbraccio da dare nel primo mattino al Piccolo che sale in piedi sul divano per riceverlo, l’abbraccio da dare al Grande prima che la notte si accartocci sulla casa, l’abbraccio muto alla donna che giace al nostro fianco. E tutto questo non perché pensiamo che ciò non costituisca un rischio, ma perché riteniamo che questo è un rischio che non possiamo fare a meno di correre se vogliamo che il domani, che non riusciamo a prefigurare, ci restituisca intatti a noi stessi e alla nostra umanità.
E dunque, chi oggi tiene veramente all’uomo: abbracci!
(Questo post è dedicato a tutti coloro che avranno voglia di leggerlo ma soprattutto a coloro con i quali in questi ultimi venti anni ho condiviso un percorso di comunità dentro l’associazione Tulime nella speranza che in questo inverno impietoso saremo ancora in grado di conservare e mantenere vivo dentro di noi quel “verbo” che da solo è stato capace in tutto questo tempo di “congiungerci” e di “esortarci”.)