Spaesati

Spaesati

cerchiamo segni da decodificare

in accadimenti che segno non sono.

Il prezzo, insostenibile,

di un bene di “prima necessità”,

la recrudescenza di una pandemia,

l’ennesima guerra, sempre uguale,

messa in scena dallo scimpanzé litigioso.

Nessuno che guardi al volo svogliato degli uccelli

che hanno smarrito il senso del migrare.

Nessuno che impari

dallo scirocco che più non risponde

alla regola dei tre giorni.

Nessuno che rimpianga

quello che le Azzorre

più non sanno dare.

Nessuno che provi sgomento

per questa cella temporalesca,

roboante ed inusitata,

che giunge da dove, fino a ieri,

non avrebbe mai osato giungere.

Non una parola

Non una parola

Quanta acqua scorre quest’anno

e quanta l’anno scorso,

un sorso alla sorgente

che sgorga dalla roccia,

la goccia e la cascata,

una volpe mai avvistata di giorno,

cinque serpenti, non uno di meno,

e il grido del gheppio

sigillo al suo nido.

Non una parola sulla morte,

sulla coorte di demoni

che per un anno intero

ha reso oscuro il cammino,

sul muro davanti al quale

per giornate intere

abbiamo mortificato lo sguardo.

E il cardo, il fiore della ginestra,

la finestra sul mezzogiorno,

le spighe, per fortuna,

il ritorno.

Sodali

Sodali

Raccolto, in ascolto,
inchiodato nel legno
di una croce e di un segno
che mi tolgon la voce.
Mentre un tempo veloce
di miracoli e d’ali
mi si schiude davanti,
a me sono sodali,
a me sono compagni,
solo i tanti che ho perso.

Degli stagni del cuore
scampo al gioco perverso,
il lamento ed il pianto
lascio scorrere accanto,
e del canto del mondo
mi delizio e circondo,
degli strali luce,
della gemma sul ramo.
E mi sono sodali
tutti quelli che amo.

Il prezzo di questa primavera

Il prezzo di questa primavera

L’ho pagata in anticipo,
un impegno di vita,
giorni lunghi slabbrati
e fatica infinita.

L’ho pagata nelle ore
che preludono al giorno,
in quelle albe dolenti
che si chiudono attorno.

(Sette volte tornato
a vedere le stelle,
sette volte partito
come metà l’inferno).

E quel prezzo impagabile
di molecole e pianto,
nel disprezzo del tempo,
nel silenzio del Santo,

l’ho pagato in eterno,
dal mattino alla sera:
mi è costata un inverno
questa mia primavera.

Lontano è un paese che non ti do la mano

Lontano è un paese che non ti do la mano

Cesare frequenta la terza elementare. Cesare frequenta la terza elementare all’Istituto Valdese di Palermo. Da quando è cominciata questa storia della pandemia abbiamo prima attraversato il periodo della didattica a distanza e, una volta passata l’estate, siamo entrati in una nuova fase. La scuola ha infatti deciso che per le attività in presenza, a garanzia dei bambini e delle famiglie, la sua classe dovesse essere divisa in due sotto gruppi, ognuno composto da dieci bambini, che stanno naturalmente in stanze diverse e che non si incontrano mai.

Credo che questo lavoro di “divisione” in due della classe debba essere stato un processo molto sofferto e al tempo stesso molto accurato per le bravissime maestre di mio figlio.

Chi mai, d’altra parte, può mettere ordine nelle complesse relazioni umane senza il rischio di perdere pezzi, di produrre fratture dolorose ed insanabili, di infrangere legami che la vita e la quotidiana frequentazione avevano suggellato? E quindi quello che non è stato possibile evitare in “fase divisoria” si è provato a mitigarlo dopo, quando oramai la divisione era un fatto compiuto.

I due gruppi, da quando non sono più un’unica classe, con cadenza regolare, si scrivono quelle che io chiamo, sempre grato a Primo Levi per avermi fatto conoscere questa bellissima poesia di Rilke, le “lunghe lettere da lontano”. Ognuno sceglie uno dei compagni dell’altro gruppo al quale dedicare ed inviare la sua lettera. Ieri è stato giorno di corrispondenza. Leon ha scritto una lettera a Cesare. Cesare una a Matteo. Sono lettere sgrammaticate e struggenti, tanto irriverenti nei confronti della lingua italiana quanto impregnate di una nostalgia palpabile e dolorosa del tempo in cui giocavano assieme, si prendevano allegramente a legnate in giardino, scambiavano parolacce e sformati durante i pranzi in mensa. La lettera a Cesare e stracolma di “spero”. Spero di venire presto a casa tua, spero che ricominceremo a giocare con le carte Pokemon, spero che trascorrerai un buon Natale. Un inno alla speranza di un bambino per cui la speranza dovrebbe essere solo uno strumento buono per domani e che invece maneggia già da mesi con abilità infantile. Quella da Cesare è piena di ricordi. Ti ricordi quando non sei venuto a casa mia, ti ricordi quando ci sedevamo accanto a mensa. Ti ricordi. Un crogiolo di ricordi nel quale si fondono nostalgie acerbe che rischiano di maturare troppo presto.

Vorrei sapere chi è la postina che ogni volta si fa carico di recapitare questa corrispondenza pesante e palpitante. Vorrei sapere se qualcuno alla fine raccoglierà tutte queste lunghe e brevi lettere da lontano per farne l’epistolario di queste tempo che forse da solo, potrà restituirci l’immagine di questa storia altrimenti impervia ed ineffabile.

“Cesare ti mancano Leon e Matteo?”. Che domande stupide che fanno certe volte i padri. Cesare si volta verso la stufa e non risponde.

Domani la postina misteriosa tornerà a congiungere ancora i due gruppi con le sue missive. Tesserà la sua rete di messaggi a ricucire lo strappo fra due gruppi che appartengono ad un’unica entità ma abitano due luoghi differenti, a colmare una distanza apparentemente incolmabile, distanza di non più di qualche metro che costituisce però un baratro, una voragine, fra coloro che sono stati “sempre assieme”.

Perché Roberto Vecchioni non sbaglia quando canta a sua figlia: “ “Lontano” mi chiedi “ma dov’è questo lontano?”, lontano è un paese che non ti do la mano, com’è lontano questo lontano…”.

Il primo abbraccio

Il primo abbraccio

Agli amici cari nell’attesa, ormai dolorosa, di poterli riabbracciare.

Il primo abbraccio

Non sarà per un nuovo decreto,
non sarà per via di un divieto
che a un certo punto decade.
Non sarà al finire di una decade speciale,
né un fatale anniversario a resuscitarne l’uso.
Non sarà al chiuso di un tribunale
che lo vedremo di nuovo apparire.
Non sarà qualcuno a dire: “adesso si può”
e tutti assieme, in un momento solo,
a ricominciare.
Sarà, pare, per via di genitori distratti
e i cuori vicini dei figli, all’improvviso.
Sarà per un viso caro
prossimo, ad un tratto,
e il patto con la paura
che in un attimo si rompe
a dare spazio al desiderio.
Non sarà un atto di imperio,
né una tardiva autorizzazione.
Sarà un’azione che non corrisponde a un calcolo,
un volo a lungo non spiccato,
un vuoto infine colmato
che al momento del commiato
ci restituiranno fra le braccia l’amico,
fra le sue braccia, a l’amico, ci restituiranno.

Lucidare l’anello

Lucidare l’anello

Per circa due anni andai dietro una cosa che allora si chiamava Operazione Raleigh: tre mesi di spedizione scientifica con contingenti internazionali nei luoghi più incredibili del mondo. Il problema era trovare uno sponsor che consentisse a me e ad altri tre palermitani di partire. Il problema fu risolto da un giovanissimo sindaco palermitano che credette in questa cosa e ci permise di consumare una delle più belle esperienze della mia vita.

Bellissima appunto, ma molto diversa da come me la ero immaginata. Per uno come me che si innamora dei titoli dei libri per poi scontrarsi quasi sempre con al realtà costituita dal succedersi di decine di pagine a volte ben scritte altre meno, a volte piene di significati altre di strafalcioni, sarebbe stato difficile all’inizio fare i conti con un’esperienza che se di titolo faceva “Incredibile spedizione scientifica in Malesia” poi nella realtà era fatta da tanti disagi, novità, cambiamenti. Condizioni di vita estrema nella giungla, in grotta, sull’isola deserta dove facemmo le attività subacquee, condizioni difficili nella logistica, dal dove dormivamo al cosa mangiavamo, ma soprattutto per me la consapevolezza, acquisita solo una volta arrivato li, che l’organizzazione (giustamente direi adesso) non mi permetteva di trascorrere i tre mesi con la persona con la quale avevo affrontato tutta questa storia e che era in quel tempo anche la mia ragazza.

Arrivato quindi in Malesia, a tirare su una torre di avvistamento ornitologico in un parco di Sarawak, immersi nella giungla dove dormivamo coperti solo da una zanzariera, costretti a subire le delizie culinarie di volontari per lo più britannici e a bere l’acqua del fiume sempre calda perché dopo averla bollita non c’era il tempo di farla raffreddare e tutto ciò senza avere accanto Giulia, mi prese una tale rabbia, un tale magone che rischiavano veramente di farmi perdere il senso della cosa, di non farmi superare gli ostacoli che non mi permettevano di vedere tutto il bello che sarebbe inevitabilmente venuto dopo. Ad un certo punto chiesi di parlare con l’organizzazione altrimenti, minacciavo, me ne sarei tornato a casa.

Fui accontentato e per due giorni trasferito in un villaggio vicino al parco dove risiedevano due dei responsabili britannici della spedizione. Non ricordo il nome di lei, ricordo solo quello dell’uomo: si chiamava Mike. Passai due giorni con loro. Furono gentilissimi e comprensivi. Cucinarono per me cose a loro avviso deliziose che mi convinsero del fatto che in fondo la cucina di campo non era il peggiore dei mali. Ma soprattutto feci lunghe conversazioni con Mike. Mike era un ex militare poi convertito all’ambientalismo attivo. E la sera stessa che arrivai mi disse: “io capisco bene in che condizione psicologica ti trovi adesso…credo che sia simile a quella nella quale mi trovavo io nei primi mesi del mio servizio nell’esercito. Quello che mi ero immaginato non trovava riscontro nella realtà che stavo vivendo e rischiavo di perdere il significato più profondo e autentico dell’impegno che avevo deciso di prendere. Solo che nessuno poteva restituirmi quel significato se non il trascorre del tempo all’interno di quella situazione. Allora decisi che avevo bisogno di una strategia. Di qualche cosa che facesse trascorrere quel tempo e nella quale riversare tutta la mia cura e la mia attenzione nella speranza, domani, che il senso mi sarebbe nuovamente stato svelato e che io avrei portato con me quella cosa per potere dire domani <me ne sono preso cura quando avevo perduto la speranza…è ancora qui con me e continuo a prendermene cura anche adesso che ho ritrovato sia il senso che la speranza>. Avevo con me un vecchio anello che mi aveva regalato mio nonno e ogni mattina dedicavo un certo tempo a lucidarlo con il massimo dell’attenzione. Riservavo a quell’azione una cura quasi religiosa e fu la cura per quell’anello che settimane dopo mi traghettò nuovamente nel territorio del senso ritrovato”.

Quella lezione non mi servì in quell’occasione. Mike probabilmente si rese conto di avere davanti a se un caso di italiano rompi palle ed irrecuperabile che faceva pure le facce strane vedendogli mettere nel sugo ai funghi quattro cipolle tagliate grosse, e alla prassi educativa preferì il negoziato civile. Ebbi la possibilità così di partecipare alla seconda fase della spedizione con Giulia e tutto si sistemò.

Da giorni però mi torna in mente l’anello di Mike. In questi giorni in cui ciascuno di noi rischia di perdere il senso delle cose, di smarrire i significati stessi che ci tengono legati alla vita io credo che ognuno di noi dovrebbe recuperare fra le proprie cose un vecchio anello da lucidare. Qualche cosa che ci consenta di andare oltre il tempo, che metta in fila i secondi all’interno di un’attività che è al tempo stesso cura e distrazione e che ci permetta domani di dire: ciò che ancora oggi stringo fra le mani, così lucente e solido, era con me quando stavo per smarrirmi, è come me adesso che mi sono ritrovato.

Abbracci: congiuntivo esortativo

Abbracci: congiuntivo esortativo

Quando i leoni entrarono nell’arena noi avevamo già formato con i nostri corpi un cerchio al centro di essa, i vecchi e i bambini all’interno, e ci tenevamo abbracciati l’uno all’altro nel momento che sapevamo essere l’ultimo, senza speranza ci abbracciammo prima che i leoni ci vedessero e cominciassero il loro banchetto.

Quando il vulcano scagliò contro il cielo la sua nube ardente che poi come fulmine ricadde sulla città, a quelli che non avevano capito, a quelli che non avevano potuto andare, restò appena il tempo di abbracciarsi: la madre con il figlio, l’amato con l’amata, lo sconosciuto allo sconosciuto; e così spesso ci avete ritrovato secoli dopo, ancora abbracciati.

Quando all’unisono riaprirono i vagoni piombati e per la prima volta sentimmo quelle urla agghiaccianti e il latrare dei cani non ci rimase altro da fare se non abbracciarci, e ci abbracciavamo ancora mentre eravamo sulla banchina, e ancora ci abbracciavamo mentre quegli uomini facevano di tutto per rompere quegli abbracci a forza di colpi, a forza di spinte.

Quando anche l’ultima fioca lampada non resse ai colpi che le bombe invisibili ma terribilmente presenti infliggevano al guscio di cemento nel quale ci eravamo nascosti, quando le sirene dell’antiaerea sembravano gli ultimi suoni rimasti ad attraversare questo mondo, ci abbracciammo per lenire lo sconforto, ci abbracciamo perché l’incertezza dell’oggi si sciogliesse nel calore dell’abbraccio.

Quando vedemmo che il barcone si piegava da un lato e i primi di noi precipitavano in acqua prima di tutto pensammo ad abbracciarci, per l’ultimo saluto magari, per l’ultimo ricordo da nutrire nella stretta, un abbraccio fu l’ultima delle nostre azioni, l’abbraccio che il mare non tollera, l’abbraccio che il mare non sostiene, per provare a portare ancora un metro in avanti i bambini, per portare a tenere un metro più in alto il fratello.

Vi ricordate quando fummo sul monte? Sul monte del “buon fato” (che solo questo dobbiamo credere oggi voglia dire il suo nome) e ci mettemmo tutti in fila nella grande sala, per ricevere gli abbracci di tanta splendida gioventù che arrivava da ogni luogo del pianeta. E fummo persino disposti a pagarli quegli abbracci, non a loro naturalmente, ma offrimmo pegno per fare giungere abbracci a chi troppo lontano per riceverne quella sera.

Oggi che ancora una volta il male ci incalza ci dicono che abbracciarsi non è possibile. Non so, in questo tempo, quante e quali bugie ci stanno dicendo. Questa è certamente una di quelle.

Dovrebbero spiegarci piuttosto che non bisogna smettere di abbracciarsi, meno che mai adesso, ma che bisogna solo trovare modi nuovi, recuperarne di vecchi.

Non ci dicono che ci sono almeno tre modi per farlo.

Possiamo pensare/pregare, ogni mattina quando ci svegliamo possiamo rivolgere un pensiero, una preghiera a chi non vediamo da tempo, a chi rischia di non potere condurre la propria vita in maniera dignitosa, a chi è ammalato, a chi è solo, a chi amiamo e non ce lo sente dire da troppo tempo. Mettere così in moto una nuova, laica, comunione dei santi che possa ricostituire il corpo mistico di questo pianeta, da più parti dilaniato e percosso.

Possiamo agire, fare una chiamata da troppo tempo rimandata, mandare un messaggio, scrivere una email o anche una lettera vincendo la pigrizia che, in questo momento, ci vuole al fondo della china entropica. Possiamo cucinare un piatto gustoso e preparato con cura e portarlo a qualcuno che in quel momento possa gradirlo particolarmente, mettere da parte del denaro dovesse domani qualcuno averne bisogno, imparare ad abbracciare con le parole proprio come hanno fatto ieri le meravigliose maestre del mio bambino anche attraverso lo schermo di un computer, non smettere di incontrarsi, per come questo tempo consente, con coloro che ambiscono, se non a popolare la città dell’amore, quanto meno ad abitare la terra dei giusti, ed insieme continuare a produrre idee, a produrre sogni che nel contempo possano rendere migliori le altrui e le nostre vite.

Infine non dobbiamo rinunciare all’abbraccio li dove è ancora possibile, nella nostra famiglia, alla donna che amiamo, ai figli che ogni sera attorno alla tavola guardiamo con tutto l’amore che l’incertezza e l’aleatorietà della nostra condizione alimentano. L’abbraccio da dare nel primo mattino al Piccolo che sale in piedi sul divano per riceverlo, l’abbraccio da dare al Grande prima che la notte si accartocci sulla casa, l’abbraccio muto alla donna che giace al nostro fianco. E tutto questo non perché pensiamo che ciò non costituisca un rischio, ma perché riteniamo che questo è un rischio che non possiamo fare a meno di correre se vogliamo che il domani, che non riusciamo a prefigurare, ci restituisca intatti a noi stessi e alla nostra umanità.

E dunque, chi oggi tiene veramente all’uomo: abbracci!

(Questo post è dedicato a tutti coloro che avranno voglia di leggerlo ma soprattutto a coloro con i quali in questi ultimi venti anni ho condiviso un percorso di comunità dentro l’associazione Tulime nella speranza che in questo inverno impietoso saremo ancora in grado di conservare e mantenere vivo dentro di noi quel “verbo” che da solo è stato capace in tutto questo tempo di “congiungerci” e di “esortarci”.)

Distanziamento e densità

Distanziamento e densità

Giorni di studio a fianco del grande per preparare una serie di verifiche del suo primo anno da liceale. Ieri il primo tema di italiano, oggi la prima verifica di chimica. E quindi nei giorni scorsi ho provato a recuperare quella piccola percentaule di conoscenza chimica che ancora residua nel mio cervello e ci siamo cimentati in questioni riguardanti il Sistema Internazionale di misurazione, gradi Kelvin e Celsius e un po’ di unità di misura riguardanti il lavoro, la temperatura, la massa, ecc.

Ci sono stati tanti “cortocircuiti” che ci hanno fatto riflettere, altri che ci hanno fatto ridere.Lui mi prende in giro dicendo che io per il mondo ho una sola chiave di lettura che si chiama “fotosintesi clorofilliana” ed io naturalmente a tirargli fuori, ad ogni pié sospinto, come tutta l’energia arrivi dal sole e la partita sul nostro pianeta se la giochino tutta l’energia cinetica ed l’energia poteziale con il ruolo occulto dell’energia gravitazionale.Ma devo dire che anche sulla densità ci siamo molto divertiti: all’aumentare della temperatura diminuisce la densità di un corpo, qualunque sia il suo stato (ma con qualche eccezione).

Credo che in questo momento sia uno di quei principi dei quali possiamo constatare la bontà e la correttezza nella contingenza storica e sociale che tutti noi viviamo.Le norme sul distanziamento infatti ci permettono di assistere a convegni (da domani neanche più a quelli per la verità), eventi pubblici, manifestazioni di piazza, dai quali riceviamo la sensazione di una notevole ed aumentata partecipazione. Convegni che fino a ieri ci sembravano deserti oggi sembrano riscuotere un significativo successo di pubblio, manifestazioni di piazza da “quattro amici in un angolo” oggi tendono a coprire notevoli estensioni di suolo pubblico.Eppure nulla è cambiato in termini di partecipazione, l’unica cosa che è cambiata è la densità e la nostra alla fine è solo la soddisfazione del pallone gonfiato in una giornata di calura estiva.

Verso l’infinito e oltre

Verso l’infinito e oltre

Mattina di fuoco tipica da genitori/lavoratori in tempo di pandemia. Il grande per il terzo giorno di lezioni a distanza è per fortuna a casa, il piccolo invece deve essere portato a scuola entro un tempo decente per lui e per il mio arrivo in ufficio. Davanti la solita sfilza di incombenze, la stessa che ti si para davanti ogni mattina quando apri il primo occhio e ti dici (come direbbe una mia cara amica) “un ma siento”. Mentre sfreccio a destra e sinistra percorrendo ogni possibile diagonale che connette la casa con il giardino, mi accorgo che Cesare è ancora in mutande, immobile davanti ad una TV inopinatamente accesa ed evidentemete e strumentalmente impegnato nello sbottonamento del colletto della polo che avrebbe giù dovuto indossare almeno 7 minuti fa. Nel tentativo di mitigare la partenza dell’embolo provo a rivolgermi a lui con la giusta dose di ironia: “Cesare quante ore pensi che ci vogliano per sbottonare quel colletto?”. Lui resta con lo sguardo fisso sullo schermo e con voce piatta e priva di ogni emozione mi dice: “Papà io non riesco a sbottonarlo e quindi (cito testuale n.d.r.) l’attività che sto facendo potrebbe durare teoricamente all’infinito”. Ciò che meriterebbe un significativo approfondimento, un plauso genitoriale che riconosca il valore dei termini usati e del pensiero prodotto, finisce per essere mortificato dala quotidiana pena e a me non resta che dire: “Cesare vedi di camminare e dammi questa maglietta che se no a scuola ti ci porto in mutande”. Alla fine aveva ragione Marco Messeri quando ne “La messa è finita” diceva che “la vita è volgare”.