Fin qui

Fin qui ti ho portato

per vederti andare via?

Vita Mia, Mio Adorato,

mi parlerai

da quel luogo lontano?

La tua mano

mi sembrerà di stringere

in un sogno?

Ciò di cui più abbiamo bisogno

è ciò di cui meno siamo capaci:

fermare il tempo,

colmare la distanza.

In questa stanza,

davanti ai tuoi occhi belli,

adesso non parlo più,

te lo prometto,

adesso taccio.

Ma tu dammi, se puoi,

un altro abbraccio,

ancora un bacio.

Della felicità, del calcio e dello stadio Diego Armando Maradona

Della felicità, del calcio e dello stadio Diego Armando Maradona

Quello della felicità è territorio impervio. Ti sembra di mettere i piedi su terreno solido e sei già per metà immerso nelle sabbie mobili. Ti sembra di nuotare in acque limpide e aperte ed improvvisamente ciò che era liquido si trasforma attorno a te in sostanza vischiosa e impenetrabile. Quello della felicità è veramente territorio impervio ed io già lo sapevo mentre organizzavo questa tre giorni con il Mio Adorato, forse l’ultimo tempo congruo assieme, io e lui da soli, prima del tempo del distacco, di questo agosto che viene troppo in fretta, calzando gli stivali delle sette leghe.

Allora mettendo da parte la mia avversione per il calcio, ché a me piace pensare che risalga al tempo in cui Berlusconi diventò presidente del Milan (che era la squadra per la quale prima del suo avvento tifavo), gli ho detto “che fa, ci vuoi venire con me tre giorni a Napoli in occasione della partita dell’anno Napoli-Juve” (lui per ragioni misteriose tifa Napoli). Figurarsi se quello perdeva questa occasione. Solo che lui non lo sapeva, o forse sì, che era un viaggio che ne replicava un altro fatto più di cinquant’anni fa, con una nave simile a quella, in una città simile a quella, con l’unica differenza che colui che adesso è padre allora era figlio come è lui adesso e l’acquario di Napoli, che allora mi sembrò enorme, oggi assume le sue reali dimensioni (o forse no, e le sue reali dimensioni erano quelle di allora?). E poi ieri sera eravamo finalmente nel “catino del Diego Armando Maradona” (lo vedete che se anche non mi interesso più di calcio parlo ancora perfettamente il linguaggio del telecronista sportivo!?!?!) e per quanto mio cugino avesse fatto un miracolo nel trovarci i biglietti non eravamo seduti accanto e nemmeno vicini. Io in un punto della zona distinti e lui ad una quarantina di metri da me accanto a cugina e fidanzato della cugina. Ed io a rosolarmi per tutto il primo tempo in quella sostanza grassa come la sugna che è il rimpianto: “quanto sarebbe stato bello vedere accanto a lui la partita…ma in fondo è la sua felicità che conta e non la mia e lui in questo momento è sicuramente felice anche se io non sono accanto a lui”. E poi un posto si libera accanto a me e tutto il tempo da quel momento a friggere nell’olio leggero del rimorso futuribile: “e se gli dico di venire e poi il Napoli perde? Lasciamo stare e teniamolo lì tranquillo dove è”. E poi nell’intervallo un salto da lui per dirgli facendo finta di niente: “guarda Zacco che c’è un posto libero accanto a me”, e lui che mi risponde “lascia stare papà, resto qui con Giorgia”. E poi venti secondi prima che ricominci la partita me lo vedo arrivare, scomposto e confuso come è sempre, che ci ha ripensato e che vuole stare vicino a me. Ma il posto nel frattempo se lo è preso un signore che anche lui aveva il suo un po’ distante dalla sua famiglia e che però, anche lui padre, una volta visto i miei occhi supplichevoli ha detto: “va bene, io in fondo sono più vicino ai miei di lei, preferisco che siate voi a stare vicini”. E ho pensato che certe volte il mondo funziona per come dovrebbe, e ho messo da parte ogni grasso di cottura, e abbiamo esultato assieme per il 3 a 1 e per il 4 a 1 e poi ancora per il 5 a 1 e avrei voluto che il Napoli non finisse mai di segnare, non che me ne freghi niente del calcio, ma per unire alla sua la mia voce, per sentirmi uno con lui anche in una situazione così insulsa, per prolungare ancora per un po’ questa “nostra infanzia” che è dono della divinità e dell’umana perseveranza. Lo vedevo accanto a me così grande ed io mi sentivo così piccolo, così piccolo e così fragile ma al tempo stesso così felice.

Dicevo che la felicità è un territorio impervio ed io ieri sera lo ho attraversato, lo ho percorso in tutte le direzioni, accanto all’uomo della mia vita senza sapere se quella vita ci darà ancora la possibilità di affrontare altri cimenti simili in futuro.

E per quanto, come ho già scritto diverse volte, a me del calcio non me ne freghi niente, vuoi mettere la soddisfazione di vedere quegli stronzi della Juventus perdere 5 a 1!?!?

Le nostre notti

Fu nostra la notte,

la prima dico,

e tante a seguire.

Che ti staccavo dal seno della mamma,

addormentati entrambi,

per natura uno,

per stanchezza l’altra,

e per un po’ mi deliziavo

delle tue manine,

della tua fronte,

dei tuoi occhi chiusi.

Era nostra la notte

nelle notti di febbraio,

nelle notti di febbre.

Che non era possibile dormire

accanto a te disteso

e le mani ti stringevo

a fermare i brividi,

e la fronte toccavo

in cerca di un segno,

e nei tuoi occhi socchiusi

intravedevo un mondo

dove impossibile era seguirti.

Quante notti nostre

ogni volta che mi hai detto:

“resta ancora un po’ con me

qui nel mio letto”,

ogni volta stelle a spiare

su un vecchio materasso distesi

o sulla spalletta di quel ponte.

Ed io a stringere le tue mani belle,

e stelle vedere riflesse nei tuoi occhi,

e la tua fronte larga

la luna a riflettere.

Ancora nostra è la notte

e ancora veglio

in attesa di udire la tua voce

“Papà puoi venire a prendermi”.

E il buio che scorre sull’auto,

e tu che mi dici poche parole

“Come è andata?

È stata una bella serata?”

E ti scruto negli occhi,

e una carezza rubata alle mani,

e il bacio della buonanotte,

sempre sulla fronte.

Sarà ancora nostra la notte,

quell’ultima dico,

mio per sempre Adorato.

Che seduto

mi starai accanto,

ed io ancora un sorriso fugace,

e il tuo bel nome a ripetere,

e tu che mi stringi la mano,

e tu a me una carezza sulla fronte

a tergere il sudore,

e un bacio sugli occhi, tu a me,

all’ultimo momento.

E’ tutto qui

E’ tutto qui

A Zaccheo, il Mio Adorato, nel giorno del suo quindicesimo compleanno.

È TUTTO QUI

È tutto qui Amore Mio:

tu, tuo fratello, la mamma ed io.

Tutto qui Mio Adorato,

tutto in questo tempo risicato.

È tutto qui, in questa casa,

in questo cielo terso,

in quest’angolo di universo.

È tutto qui, nelle parole che mi dici,

in questi quindici anni,

nelle tue suole di figlio,

nei miei panni di padre.

È tutto qui, per sempre mio bambino,

tu che mi accompagni verso la sera,

io che ti risveglio al mattino.

Quattromila baci

Quattromila baci

Mio Adorato
Il conto è presto fatto.
Considera il fatto
Che da quando sei nato
Sono trascorsi più di quattordici anni.

Considera anche
Che non un solo giorno è passato
Senza che io di dessi
Almeno un bacio.

Per questo tutto sommato,
Uno in più uno in meno,
Credo che da quando esisti,
Uno dopo l’altro in fila
Ti ho dato baci in numero di quattromila.

Albero mio, figlio mio

Albero mio, figlio mio

Il mio albicocco smania per fiorire. Stamani gli ho fatto visita e ognuna delle sue gemme è già pronta. Non sa delle gelate di marzo che certamente arriveranno. Non sa che dovrebbe aspettare ancora un poco prima di andare incontro alla sua primavera. Per lui scrive la poesia che segue.

Albero mio, figlio mio

E’ presto, aspetta,

non avere fretta per favore

ché stretta ancora è la porta

che conduce alla stagione nuova.

L’odore che giunge dai monti

racconti narra di fango

e sorgenti torbide.

Ride la cornacchia

e oltre il fosso

zampetta ancora il pettirosso.

E’ presto, aspetta

che ogni segmento

che collima stelle

si congiunga in una retta

per il vento tiepido

strada nuova fra le crune dei monti.

E’ presto, aspetta

ancora pochi istanti

ché le tue gemme diamanti

non debbano temere

il gelo certo

di un marzo spietato.

E’ presto, aspetta,

come io ti ho aspettato,

ché al tuo tronco giovane

possa aggrapparmi

un giorno in più,

un giorno prima

dell’inevitabile oblio:

albero mio, figlio mio.

Montagne verde acqua

Montagne verde acqua

Siamo in macchina. Io immerso in uno dei suoi monologhi che vertono inevitabilmente su argomenti elettronici ed informatici. Fino a che non porrò un limite lui continuerà senza sosta.

Dapprima mi sembra che la questione riguardi la differenza fra una certa “pista arcobaleno” la cui difficoltà cambia molto fra la wii e la switch e se in quest’ultima dopo la prima curva sei ancora primo allora sei una vera “celebrità”.

Poi si torna su una discussione già affrontata la sera prima e che riguarda un certo numero di “bambini di quinta” che sul pulmino “vendono” ai più piccoli partite sulle loro consolle e cellulari di “contrabbando”. Solo a quel punto interrompo un attimo il flusso per ribadire la nostra posizione sull’argomento: “Cesare non sia mai che paghi per giocare”. E lui, qualificandosi per quello che è: “no papà, perché loro sono dietro ed io invece sono davanti e la signora che ci accompagna ci fa alzare solo quando dobbiamo scendere”, dichiarando apertamente che la rinuncia alla possibilità dell’acquisto è legata ad un fatto puramente geografico e non ha nulla a che vedere con qualche, non sia mai, sano principio.

E poi ad un tratto siamo oltre la seconda galleria, nell’altra bioregione, il nostro breve ed urlante “buon giorno al giorno” e uno strano ed inaspettato silenzio che cade fra noi subito dopo e del quale mi accorgo solo passato qualche secondo.

Mi giro e lo vedo con lo sguardo perso verso le montagne, quelle verdi in primo piano e quelle più lontane che già sconfinano nell’azzurrità di questo mattino di quasi primavera.

Da a questa inattesa tregua ancora qualche secondo e poi, senza mai staccare gli occhi dall’orizzonte, dice pari pari, tale e quale a come ve lo sto dicendo: “mi piace quando sto sulle montagne alte tutte piene di erba verde acqua, ed è nuvoloso e piove ed io sono avvolto in una coperta”.

Cesare Amore Mio, farfalla della mia vita, non ti amo per questo più di quanto non ti amassi già un minuto fa, ma adesso sento che vibriamo nella stessa brezza, adesso sento, nella pratica quotidiana della contemplazione che il nostro pianeta ci propone e che troppo spesso noi trascuriamo, di trovarmi veramente al tuo fianco mentre ci teniamo per mano.

Il ragazzo

Il ragazzo

Da qualche giorno
Abita in casa mia
Un ragazzo che non conosco.
Straniero, un po’ losco,
Mi gira attorno
Alto come un albero,
Bello come il sole.
Suole ogni tanto
Rivolgermi la parola
E quando lo fa
Dalla sua gola
Viene fuori una voce
Roca e potente
Mai sentita prima.
Il mio cuore però lo sa
Di chi è figlio
Questo ragazzo là:
Figlio è di quell’altro me
Che non abita più qua
E che torna ancora
Qualche minuto
Quando lo guardo
E dentro di me gli dico
“Amore mio
Quanto sei cresciuto”.

Costringere alla tenerezza

Costringere alla tenerezza

Il Piccolo è un essere strano, un essere complesso. A volte penso che più che appartenere ad una nuova generazione lui appartenga proprio ad una nuova specie.

E’ dotato di uno spirito anarchico che lo porta a contrapporsi a qualunque regola e al tempo stesso di un rigore morale che lo rende intollerante nei confronti di qualunque ingiustizia da considerare alla luce di un’etica e di una logica personalissime. Il tutto apparentemente innato, some se lo avesse già nel codice genetico, così come impressa nei suoi geni fosse già questa sua volontà di essere lui padrone del suo spazio, essere lui a determinare le distanze decidendo, secondo parametri molto precisi, chi può varcare i confini e chi no.

Fra le righe di questo suo statuto sembra non esserci spazio per la parola “tenerezza” e invece a guardare bene anche quella è per lui soldo da utilizzare con parsimonia, che solo lui sa come amministrare.

Il povero “essere nuovo” si trova invece un padre sdolcinato e melenso, propenso ad un romanticume da libro cuore piuttosto che ad una lucida (e bisogna dirlo, a volte persino utilitaristica) gestione delle relazioni come invece è lui. Oramai persino io ho capito che quando Cesare si avvicina, si struscia un pochettino e dice “Papà ti voglio benissimo” dietro l’angolo è inevitabilmente pronta la richiesta di un qualche gadget Pokemon oppure di un’ora di gioco elettronico senza il pagamento del pedaggio di un’ora di lettura preventiva.

Il padre romanticone è fra l’altro molto propenso all’attribuzione reiterata e compulsiva di “nomignoli” che sciorina durante tutta la giornata con una forte concentrazione nelle prime ore del mattino (ora in cui tranne lui, il padre, gli altri sono dotati di un forte e incrollabile odio nei confronti di qualunque creatura apparentemente vivente che si aggiri per la casa). Alcuni di questi nomignoli hanno fatto la storia e sono sopravvissuti all’usura del tempo. Il nomignolo di “Farfalla”, per esempio, è l’unico che lui stesso rivendica per se stesso (o che almeno usa come deterrente per qualunque altro eventuale e successivo battesimo: “no papà, non puoi chiamarmi così perché già mi chiamo Farfalla”), il nomignolo che avevano finito per usare anche le sue maestre dell’asilo e quello che forse meglio lo definisce in questo suo svolazzare perenne fra il bracciolo di un divano, il ramo di un albero, la schiena di un fratello o di un genitore.

Ma ce ne è uno che io amo moltissimo e che non so nemmeno come è nato e da dove venga. Ogni tanto lo chiamo “Mokit”. E’ il mio nomignolo “sfida”, il nomignolo che uso per costringerlo nel territorio della tenerezza contro la sua volontà, per fargli secernere da questo suo genoma post atomica una goccia di DNA che sappia di miele. E questo è un nomignolo che lui ama ed odia contemporaneamente perché lui sa, ogni volta che lo uso, che funziona come un bastone elettrico (sono questi i paragoni pulp che gli piacciono) che, contro la sua volontà, lo costringe a muoversi verso una zona dell’anima alla quale lui si concede solo raramente, come un lazo che gli imprigiona il cuore e lo porta nel recinto della tenerezza.

A me piace tanto perché, come raramente accade, lo percepisco incerto su un confine e poi perché lo vedo che alla fine si gira e, di nascosto, sorride.