Il miracolo della neve

Il miracolo della neve

Forse era uno di questi giorni. Oppure era in febbraio, un po’ più avanti di adesso. Di sicuro ero in una scuola elementare, in una scuola elementare di Montevago (i miei amici Antonella e Giuseppe ricorderanno sicuramente). Conducevo un momento di formazione di quelli che noi educatori alla Terra chiamiamo “sessioni di interesse” e che ci servono a condividere un metodo che quasi trenta anni fa mi folgorò letteralmente sulla “via di Civitella Alfedena”.

Loro, le insegnanti (ricordo con chiarezza che erano tutte donne) sedevano davanti a me dando le spalle alla grande vetrata che ricopriva per intero uno dei lati corti della classe. Io in piedi, nella mia “dancing zone” (è così che il mio Maestro chiama lo spazio dove ci muoviamo un po’ convulsamente durante i nostri interventi ed è così che mi piace chiamarlo), guardavo e parlavo con loro e al tempo stesso potevo vedere quello che accadeva fuori, nel muto giardino invernale (poco più di un aiuola) che circondava la scuola.

Già, quando ero partito da Palermo, la mattina si apriva su quello che sarebbe stato un bel giorno di inverno, per come devono essere i giorni e per come dovrebbe essere l’inverno.

Poi, quando ero in classe già da diversi minuti, impegnato nella sessione, i miei occhi, che avevano indugiato per qualche minuto sui partecipanti, si sollevarono di pochi gradi per guardare fuori: e fuori nevicava. Non una nevicata così, non qualche fiocco tanto per dire, non grandine che la nostra immaginazione e speranza vuole farci credere sia neve, ma proprio una nevicata “come si deve”, una cortina fitta e leggera di fiocchi determinati a raggiungere il suolo e a restarci per tanto tempo e che, solo di tanto in tanto, si offrivano, in una danza leggiadra, ai capricci di una folata di vento. Ed io mi interruppi di colpo perché davvero non c’erano parole che potessero sostituirsi a tanta meraviglia. Chiesi soltanto alle maestre di lasciare perdere le mie fregnacce e che si girassero invece per assistere, in silenzio, al miracolo. E restammo così, seduti, per un tempo che non riesco a definire. Improvvisamente davanti ai nostri occhi ed in pochi secondi la classe (che già di suo è luogo sacro) si trasformò in santuario e noi in umili sacerdoti resi muti dal voto che l’uomo ha fatto con la divinità immanente all’inizio dei tempi: a lei la parola creatrice, all’uomo il silenzio che induce alla contemplazione. Il miracolo, quello vero, quello che non si presta a giochi di statue piangenti, quello che si annida nella nostra vita di ogni giorno, invisibile per chi è cieco, palese per gli altri, si dispiegava davanti ai nostri occhi, e noi eravamo lì per quello, ognuno di noi si era svegliato quella mattina e aveva compiuto la strada necessaria per arrivare in quel luogo, per quello, solo per quello.

Lentamente la nevicata ebbe fine. Senza parlare ognuno riprese la propria posizione e continuammo la nostra sessione.

Sweat lodge

Sweat lodge

Non ho mai fatto uso di stupefacenti. Ma niente, nemmeno una canna. Qualche curiosità “teorica” nei confronti delle droghe psichedeliche ma così, tanto per dire. Troppo bacchettone, in tutta la mia vita mi sono tenuto a distanza di sicurezza persino dal caffè e dal tabacco, e quindi figuratevi. Eppure anche io ho consumato due esperienze discretamente allucinogene, la prima senza sapere a cosa andassi incontro, la seconda con la determinazione di chi vuole riprovare. Ma adesso narrerò solo della prima.

Era il 2000 ed ero in Inghilterra per il Meeting Internazionale dell’Istitute for Earth Education, l’associazione mondiale di educatori ambientali della quale faccio parte dal 1996.

Il ramo inglese aveva organizzato l’incontro al meglio e si era avvalso di un’organizzazione che si chiamava “Green and Avay” che di lavoro faceva proprio questo: organizzava eventi perfettamente ecosostenibili e un po’ selvaggi. Tutto si svolgeva su un infinito prato verde da qualche parte a nord di Londra. Si dormiva in meravigliosi tepee, le cucine da campo sfornavano a ritmo sostenuto immangiabili piatti vegani e crudisti, le sale degli incontri erano di continuo assemblate a partire da enormi balle di paglia che venivano poi coperte con stoffe sontuose e multicolori.

La settimana passava fra incontri con il nostro fondatore, Steve Van Matre, e gli educatori più anziani, gruppi di lavoro, performance artistiche varie. Le giornate poi si concludevano attorno ad enormi falò a bere e chiacchierare.

Una sera giunse notizia che ci si poteva iscrivere per partecipare all’esperienza della “sweat lodge”. Qualcosa avrei dovuto capire dal fatto che la notizia divise l’assemblea dei presenti al fuoco in due gruppi molto netti: la maggior parte di quelli che fecero un passo indietro e che si ritirarono nell’ombra, e una piccola minoranza di entusiasti aspiranti a loro volta composti da coloro che avevano già fatto l’esperienza e volevano rifarla e coloro che non sapevano cosa li aspettava. Io appartenevo a questi ultimi. Da lì a poco una compassata ed occhialuta giovane britannica si materializzò nella notte invitando chi aveva prenotato a seguirla. Ci condusse attraverso il prato e a qualche decina di metri da dove ci aveva prelevati fummo al cospetto della nostra sweat lodge (in italiano “tenda sudatoria”). In maniera un po’ sbrigativa ci disse che chi l’aveva già fatto sapeva già di cosa si trattava, gli altri lo avrebbero capito facendo. A quel punto con pochi gesti rapidi si spogliò completamente nuda ed invitò tutti a fare lo stesso. I neofiti come me non sapevano dove guardare ma in fretta corrispondemmo alle aspettative della nostra guida denudandoci a nostra volta. Eravamo una dozzina e quando tutti fummo dentro la capanna sudatoria mi resi conto che eravamo costretti in uno spazio terribilmente angusto e completamente buio. Accovacciati in cerchio, con le ginocchia al mento, stretti l’uno contro l’altro. La nostra guida entrò per ultima e solo dopo avere accumulato al centro una certa quantità di pietre che chissà da quanto tempo si stavano arroventando in un fuoco poco distante. Quando fu con noi provvide a sigillare completamente la tenda e il rito ebbe inizio. Mentre parlava cominciò a versare innumerevoli mestolate d’acqua sulle pietre arroventate dalle quali si sprigionò una gran quantità di vapore che saturò presto l’atmosfera della tenda. La guida ci chiese se stavamo tutti bene, ci invitò a capire se qualcuno di noi era a disagio e preferiva lasciare la tenda, ci rassicurò circa il fatto che lei possedesse una lampada e in qualunque momento poteva accenderla se fosse stato necessario. Nessuno, impegnati come eravamo a tentare di capire come reagivano a quella condizione surreale, disse nulla. Allora la nostra guida, dopo un ultimo mestolo sulle pietre, cominciò ad intonare uno strano canto. Più una cantilena per la verità, a volte una specie di gemito prolungato, altre un suono reiterato e bassissimo. All’inizio non mi resi quasi conto di questa novità preso come ero a tentare di capire se su di me prevaleva il desidero di scappare via ululando dalla tenda o di continuare immerso in quella umanità sudata e in quel suono che si faceva sempre più insistente. Dopo un poco però la sensazione sonora cominciò a prevalere su tutto e la mia testa letteralmente partì attraverso la galassia. Non racconterò qui di quel viaggio che anche per me resta ancora oggi abbastanza ineffabile ed inenarrabile, dico solo che dopo un tempo inquantificabile tornò a farsi sentire la voce fatta adesso di parole della nostra guida che diceva che l’esperienza stava per finire, che da lì a qualche secondo la tenda sarebbe stata aperta e che a pochi passi, come fosse la cosa più normale del mondo, era stata preparata una piscina di fango dove, se volevamo, potevamo completare la nostra esperienza ricoprendoci appunto di fango. Quando fummo fuori dalla tenda non eravamo più gli stessi, il gruppetto eterogeneo ed internazionale di timidi ed incerti educatori ambientali si era trasformato in una dozzina selvaggia che nuda, fumante e ricoperta di fango si lanciò attraverso l’estiva notte britannica all’assalto dei tanti rimasti attorno al fuoco. I pochi secondi fummo addosso ai malcapitati e chi non riuscì a eclissarsi nelle tenebre fu assalito, abbracciato, strapazzato da questo branco ululante e folle. Nonostante la ridottissima lucidità non dimenticherò mai la faccia del nostro Decano quando ci vide arrivare come spettri urlanti nella notte. Tutto durò pochi minuti, il tempo che ci volle a restituirci alla noiosa e prosaica realtà, a quella parte di universo nella quale la gente va in giro vestita, non si spalma abitualmente di fango, e non si mette ad abbracciare e baciare sconosciuti in una notte d’estate.

La sensazione fu quella che immagino provarono Adamo ed Eva appena buttati fuori dal paradiso terrestre: ci rendemmo improvvisamente conto di essere nudi e ne provammo una grande vergogna.

Sono passati più di vent’anni da quel giorno e da allora solo un’altra volta ho messo piede in una capanna sudatoria per consumare un’esperienza per certi versi ancora più forte della prima. Ma questa è un’altra storia che forse racconterò in un altro tempo.

Oggi, individuato lo spazio più adatto in giardino, per come vanno le cose e per quelli che sono i ricordi che conservo, diciamo che sto valutando seriamente la possibilità di costruire una sweat lodge in zona pollaio.

Un mattutino laico

Un mattutino laico

Torno a scrivere di raccolta differenziata a poche ore dal mio post di ieri.

Lo faccio perché nel tributo che ho voluto fare al mio sindaco e alla comunità nella quale vivo e che lui amministra mi sembrava di non avere detto qualche cosa, di avere trascurato un elemento importante.

Come ho gi scritto chiaramente in un mio post di qualche tempo fa (“Negare il nostro consenso…per proprietà e dignità“) io, in fondo, alla raccolta differenziata non ci credo.
Continua a leggere “Un mattutino laico”

Verso l’infinito e oltre

Verso l’infinito e oltre

Appena reduce dalla bellissima mostra su Escher a Catania.

Tante cose mi hanno colpito.

I suoi viaggi attraverso la Sicilia di cui non sapevo niente e che hanno toccato tanti luoghi che mi appartengono profondamente.

I miei bambini, ognuno con la propria audioguida, profondamente interessati a quello che vedevano e che sentivano (a dimostrazione che una cosa del genere può essere pensata anche per loro). Continua a leggere “Verso l’infinito e oltre”

Odori famigliari

Odori famigliari

Per tanto tempo sono stato convinto che i nostri sensi funzionassero come delle finestre aperte sul mondo.

Grandi buchi aperti sulla superfice della nostra interfaccia con l’universo attraverso i quali ricevere sollecitazioni, impulsi, stimoli.

Poi è venuto Steve Van Matre e l’Educazione alla Terra, e dopo ancora David Le Breton con la sua antropologia dei sensi e mi hanno spiegato, convincendomi, che i nostri sensi purtroppo (e a volte per fortuna) non sono affatto dei canali aperti che ci mettono in connessione con il grande oceano galattico, sono piuttosto delle finestre ma delle finestre con tanto di vetri che si comportano da veri e propri filtri. Continua a leggere “Odori famigliari”

Alla ricerca di Philae

Alla ricerca di Philae

A me sembra già straordinario il fatto che siamo riusciti a mandare un piccolo robot (Philae) su una cometa (67P/Churyumov-Gerasimenko).

Voglio dire: mentre quella correva attraverso lo spazio come una pazza, noi (e per noi intendo il genere umano) siamo riusciti a farci atterrare (o dovrei dire “accometare”) sopra un robottino pesante qualche chilogrammo che per qualche tempo se ne è andato in giro riprendendo la superficie della cometa e restituendoci incredibili immagini. Continua a leggere “Alla ricerca di Philae”

Cose che solo gli umani sanno fare

Cose che solo gli umani sanno fare

Per fortuna qualche minuto dopo avere scritto il post di stamani dal titolo “Considerazioni inquietanti” mi arrivano gli auguri dei miei amici Paolo e Marilena.

E di una cosa sono sicuro: non esiste sistema informatico capace di scrivere degli auguri come questi. E questo fino ad adesso ci salva. Continua a leggere “Cose che solo gli umani sanno fare”