Il Piccolo è un essere strano, un essere complesso. A volte penso che più che appartenere ad una nuova generazione lui appartenga proprio ad una nuova specie.
E’ dotato di uno spirito anarchico che lo porta a contrapporsi a qualunque regola e al tempo stesso di un rigore morale che lo rende intollerante nei confronti di qualunque ingiustizia da considerare alla luce di un’etica e di una logica personalissime. Il tutto apparentemente innato, some se lo avesse già nel codice genetico, così come impressa nei suoi geni fosse già questa sua volontà di essere lui padrone del suo spazio, essere lui a determinare le distanze decidendo, secondo parametri molto precisi, chi può varcare i confini e chi no.
Fra le righe di questo suo statuto sembra non esserci spazio per la parola “tenerezza” e invece a guardare bene anche quella è per lui soldo da utilizzare con parsimonia, che solo lui sa come amministrare.
Il povero “essere nuovo” si trova invece un padre sdolcinato e melenso, propenso ad un romanticume da libro cuore piuttosto che ad una lucida (e bisogna dirlo, a volte persino utilitaristica) gestione delle relazioni come invece è lui. Oramai persino io ho capito che quando Cesare si avvicina, si struscia un pochettino e dice “Papà ti voglio benissimo” dietro l’angolo è inevitabilmente pronta la richiesta di un qualche gadget Pokemon oppure di un’ora di gioco elettronico senza il pagamento del pedaggio di un’ora di lettura preventiva.
Il padre romanticone è fra l’altro molto propenso all’attribuzione reiterata e compulsiva di “nomignoli” che sciorina durante tutta la giornata con una forte concentrazione nelle prime ore del mattino (ora in cui tranne lui, il padre, gli altri sono dotati di un forte e incrollabile odio nei confronti di qualunque creatura apparentemente vivente che si aggiri per la casa). Alcuni di questi nomignoli hanno fatto la storia e sono sopravvissuti all’usura del tempo. Il nomignolo di “Farfalla”, per esempio, è l’unico che lui stesso rivendica per se stesso (o che almeno usa come deterrente per qualunque altro eventuale e successivo battesimo: “no papà, non puoi chiamarmi così perché già mi chiamo Farfalla”), il nomignolo che avevano finito per usare anche le sue maestre dell’asilo e quello che forse meglio lo definisce in questo suo svolazzare perenne fra il bracciolo di un divano, il ramo di un albero, la schiena di un fratello o di un genitore.
Ma ce ne è uno che io amo moltissimo e che non so nemmeno come è nato e da dove venga. Ogni tanto lo chiamo “Mokit”. E’ il mio nomignolo “sfida”, il nomignolo che uso per costringerlo nel territorio della tenerezza contro la sua volontà, per fargli secernere da questo suo genoma post atomica una goccia di DNA che sappia di miele. E questo è un nomignolo che lui ama ed odia contemporaneamente perché lui sa, ogni volta che lo uso, che funziona come un bastone elettrico (sono questi i paragoni pulp che gli piacciono) che, contro la sua volontà, lo costringe a muoversi verso una zona dell’anima alla quale lui si concede solo raramente, come un lazo che gli imprigiona il cuore e lo porta nel recinto della tenerezza.
A me piace tanto perché, come raramente accade, lo percepisco incerto su un confine e poi perché lo vedo che alla fine si gira e, di nascosto, sorride.