Ci sono tante strade che conducono dal ristorante di mia moglie a casa mia. Alcune più brevi e meno trafficate alcune lunghe e caotiche. L’altro giorno Veronica me ne ha anche fatta scoprire una che sembrerebbe essere la migliore eppure io faccio sempre la stessa, che di sicuro non è la migliore, ma io la amo più delle altre e per questo la percorro. Essa congiunge più di ogni altra gli episodi di una storia ed è una storia che io voglio continuare a raccontarmi.
Comincia con quella curva che immette in Piazza San Francesco di Paola e passa davanti ad un posto che adesso tutti conoscono come Villa Filippina ma allora non è che lo sapevamo che si chiamava così e noi la chiamavamo cinema Aaron (mi sembra proprio con due a) e c’era sto cinema assurdo con una fila di forse 5 sedili che come in una tabellina dei folli si moltiplica per un’altra, che andava verso lo schermo, di 50 sedili e in questo corridoio cinematografico io vedendo “Il dormiglione” di Woody Allen stavo morendo dalle risate, ma proprio morendo, e i miei amici mi guardavano pensando “ma guarda quanto si diverte Francesco” e io se avessi potuto gli avrei gridato “cretini fatemi smettere di ridere che sto morendo soffocato” e quelli invece niente.
E poi ancora un poco avanti in via Dante prima e poi su fino all’incrocio con via A. Veneziano che per farci fighi chiamavamo via Anonimo Veneziano quando c’era ancora qualcuno che lo sapeva cosa era Anonimo Veneziano mentre chi fosse Antonio Veneziano non lo sapevamo né allora né adesso e lì c’è una delle tante scuole di Claudia che la andavo a prendere, a lei e alle sue amiche, con la prima macchina della mia vita, che non era manco mia e si vedeva che era invece di mio nonno che era una 850 special beige con il carburatore bicorpo che consumava quanto lo Space Shuttle in fase di decollo e quelle si vergognavano che le prendevo con quella macchina e quando salivano si distendevano sui sedili per non farsi vedere dalle amiche.
E poco più avanti c’era Discobum e credetemi c’è ancora adesso e ogni volta che ci passo lo guardo e qualche volta, raramente, lo vedo aperto, e qualche volta, raramente, vedo lei, la proprietaria, quella signora dalla faccia stranissima, e se fossi grato per come dovrei essere, se la vita ammettesse queste deviazioni che non ammette, dovrei scendere, ed entrare nel negozio e togliermi la giacca (ammesso che io la porti e che la vita ammetta queste deviazioni) e dirle “adesso ti aiuto e ricominciamo tutto assieme e vedrai che la città riscoprirà questo posto e fra qualche giorno ci sarà di nuovo la fila fuori e do not cry for me Argentina…” ché io qua ci ho comprato i dischi, si i dischi, quelli che adesso li chiamano “vinili”, più belli della mia vita, quelli che poi me li sentivo per 4 settimane e mi ci facevo certi film sopra, ci tiravo fuori certe filosofie che quali Aristotele e Kant e lì ho comprato “Robinson” di Roberto Vecchioni.
E quel disco me lo sono portato nella casa, che è sempre sulla strada, più avanti, l’ultima casa con quella specie di miei genitori, con quella specie di mia famiglia, la casa di Via Rubens, la strada misteriosamente privata ma con un nome, e in quella casa fra il piano terra e il terzo piano (inconcepibile trasloco della famiglia Picciotto) mi preparai ai viaggi di una vita e “stavolta parto davvero con un vento leggero che mi soffia alle spalle, tu dormi bene il tuo sonno dove vado lo sanno solo le stelle” e dopo ci fu il sogno della Malesia ma prima ci fu l’America e li scoprii che forse si poteva amare senza lasciarsi sedare il cuore dalla paura della perdita, li rinacqui con la consapevolezza di un ventenne e scoprii che ero vivo e mi fu fatto il dono di un’immortalità a tempo determinato.
In quella strada c’e la casa dell’amore dantesco solo che lei non si chiamava Beatrice ma si chiamava come la città del poeta e di quella notte che la sognai, una delle due volte in tutta una vita, proprio su quella strada e le vedevo solo il viso e lei mi diceva “Francesco io posso vederti tutto” e io continuavo a dirle che no, io non ci riuscivo e piangevo mentre glielo dicevo e piangevo pure nel sonno.Quella strada che una mattina, che forse era l’81, uscii sul balcone e fuori c’erano 10 centimetri di neve e prima presi gli sci da fondo e feci tre volte avanti e indietro sulla via Rubens, che tanto era privata e non c’era nessuno, e poi presi il mio Kawasaki 125 enduro arrivato di contrabbando dalla Germania, carburatore rotax, miscelatore e Joe bracchetto incollato sulla tanga che mi sentivo veramente troooppo toco, e percorsi la strada sulle tracce lasciate dagli sci per non scivolare.
E poi quando si va avanti sono già in terra di nessuno, sono già su quel tratto di strada che va bene per tutti i tempi e per tutte le stagioni. Sono in vista di casa, quella vera, l’ultima, quella “che sai e non sai”, anche se casa dista ancora chilometri. Quella casa che risuona e vibra con quelle altre due, quella sulla collina al confine della sera e l’altra sullo spartiacque di due fiumi esigui in un Africa che non c’era messa.
La mia casa, quella del dopo, quella che mi ha fatto capire che l’amore non è tempesta e furore ma è appunto la donna che aspetta sulla porta di casa, quella che custodisce i miei sigilli bambini che rendono il prima buono da essere raccontato ma che al tempo stesso quasi lo annullano o che tuttalpiù lo trasformano in un miele dolce amaro che alimenta questo tempo che urge da presso ed è dono impareggiabile.
Ci sono tante strade che portano dal ristorante di mia moglie a casa mia. So bene che questa è solo una delle tante linee, come in quei giochi che c’erano sulla settimana enigmistica, che unisce alcuni dei tanti puntini e che compone uno dei frammenti della mia anima.