Super enalotto ed AstraZeneca

Super enalotto ed AstraZeneca

Con genuino stupore seguo il dibattito che nasce nel nostro paese a seguito dei rischi connessi alla somministrazione del vaccino AstraZeneca.

Tanto da tante parti viene detto e si legge in proposito, tanto e per lo più confuso e confondente.

Ma mettiamo pure che le indicazioni più coraggiose derivanti da alcuni studi, e che ci dicono che esiste una probabilità su 100.000 di incorrere in gravi conseguenze, sia vera.

Allora mi chiedo (e lo faccio appunto con il genuino stupore di cui sopra): ma per quale ragione ci stupiamo se un popolo che è stato educato a credere di poter vincere al super enalotto e quindi ci gioca (probabilità di vincere 1 su 622 milioni) teme gli effetti collaterali gravi del vaccino?

I benefici sono superiori ai rischi

I benefici sono superiori ai rischi

In questo tempo di tragedia collettiva si riducono fino quasi a scomparire categorie in altri tempi care agli uomini. La forbice della nostra esistenza si restringe alla sola zona grigia, alla fascia intermedia ed esclude da un lato i santi, i buoni, gli eroi (che in pochi continuano forse ad abitare unicamente lo spazio della sanità e della medicina) e dall’altro i cattivi, i mostri, i demoni spietati. Resta unicamente questa terra di mezzo nella quale ci troviamo ad essere e soprattutto ci sentiamo solo miseri, solo smarriti, solo depressi.

Nessuno ci ha spiegato che è questo il tempo in cui è la specie e non più l’individuo a giocare la sua partita.

Il tempo in cui senza saperlo siamo posti davanti la scelta (e chi mi conosce sa quanto io rifugga la metafora bellica) di salvare noi stessi (forse) oppure mille altri senza volto e senza nome.

Il tempo in cui non esiste spazio per la ribalta mediatica, o per la fama social ma soltanto per produrre un lavoro costante, continuo e disciplinato all’interno dei luoghi di lavoro, delle scuole, delle famiglie inteso a mettere al centro del proprio pensiero e del proprio cuore la parola “responsabilità”.

Il tempo che non si offre al viaggio ma al raccoglimento, non alla visione ma al progetto, dove forse non trova spazio neanche la speranza ma nel quale ad ogni costo deve albergare la solidarietà.

Il tempo in cui, a chi spetta, deve compiere un atto solitario e anonimo come il vaccinarsi non per se stesso ma per gli altri.

Il tempo in cui non possiamo ambire a parole scolpite su tavole di pietra né a frasi che preannunciano la vittoria incise nel cielo e fra le nubi.

Il tempo in cui ci viene consegnato invece un unico viatico, un’unica garanzia posta a difesa della specie, un unico vaticinio nel quale il “se” quasi si annulla per lasciare spazio solo ad un carme collettivo privo di rima e di poesia ma impregnato di un senso profondo e spietato: “i benefici sono superiori ai rischi”.

Familismo amorale

Familismo amorale

Spero che alla fine istituiranno un “Premio alla Pazienza” per coloro che ne hanno ancora per continuare a leggere le cose che scrivo. Perché, diciamocelo francamente, sono tre o quattro le cose che a questo punto della mia vita mi sembra di avere capito e queste continuo a rimestare nel contenitore del mio blog o della mia pagina facebook. Una di queste è (avverto con assoluta chiarezza il brivido che percorre la schiena dell’eventuale lettore sopravvissuto alla premessa) una questione che a questo punto della nostra storia di esseri umani considero addirittura esiziale: lo spazio compreso fra i due estremi del livello personale e di quello collettivo. Credo di avere affrontato l’argomento in tutte le possibili salse. Ne ho fatto elemento centrale della maggior parte dei miei interventi di apertura del MITIng della mia associazione, argomento di discussione con persone care e con quasi sconosciuti. Eppure credo che ci sia sempre qualche cosa da aggiungere anche perché credo che questa idea sia in continua evoluzione e proprio in questo tempo straordinario che attraversiamo stia diventando una delle questioni fondamentali per via dell’esasperarsi di posizioni che sempre più si muovono verso istanze personali e sempre meno verso posizioni collettive (in questo senso l’intervento di ieri del nostro Presidente della Repubblica mi sembra da interpretare anche in quest’ottica). D’altra parte noi siciliani davvero non possiamo né stupirci né preoccuparci essendo da sempre portatori di principi e valori che traguardano prima di tutto il livello personale fino agli estremi di un individualismo sdrucciolo che pervade la vita di ognuno di noi come protagonisti che agiscono o come comprimari che subiscono. In questo senso, quando cerco di fornire a persone che non vivono in questo luogo e che abitano un livello più prossimo all’estremo collettivo, non posso che invitarle (in stile Benigni) a trascorrere qualche ora nel traffico della mia città, esperienza che come poche altre fornisce uno spaccato perfetto di una società che vive in maniera totalizzante in un sfera assolutamente personale che nel caso del traffico si sintetizza perfettamente nella frase: “innumerevoli IO immersi in una massa di NESSUNO”. D’altra parte il nostro muoverci verso l’altro estremo della forbice, che è appunto quello del livello collettivo, ci porta, al massimo, ad ampliare la nostra sfera di azione e comprensione al confine dato da quella che consideriamo la nostra famiglia con tutto ciò che ne deriva in termini di patologie a partire dal familismo amorale che riguarda anche nel quotidiano moltissimi di noi fino alla riproduzione, in varie situazioni e in vari ambiti, del fenomeno mafioso. Ma anche in questo caso siamo pronti a ridimensionare anche questo seppur esiguo ampliamento del livello personale nel momento in cui perdiamo il “nemico” che per lo più risiede nel territorio sconfinato delle relazioni extrafamigliari per ritrovarlo all’interno delle nostre famiglie. Anche questa è una dinamica che conosciamo bene per esempio in situazioni nelle quali c’è da spartirsi un’eredità, e più che mai oggi, in una situazione nella quale la contingenza pandemica ci propone spesso la figura dell’untore all’interno dei nostri confini famigliari.

D’altra parte quando mi trovo davanti ad un’idea che mi convince, la cui struttura mi sembra abbastanza completa e condivisibile, il mio cervello produce immediatamente una richiesta alla quale esso stesso da generalmente una risposta: una sintesi, un simbolo che attraverso il suo potere esemplare renda immediatamente comprensibile il concetto espresso.

Quando ci riesco la sera faccio una passeggiata nei dintorni di casa mia. Trenta minuti, da casa alla nazionale e ritorno. Passo in mezzo alla babele dell’edificato carinese anni 70 e 80. Esso stesso esempio analitico di che cosa voglia dire “io sono io e di chi siete voi non me ne fotte niente”. Lo attraverso pensando a cosa mi proporrebbe dal punto di vista abitativo un’attraversamento simile, che ne so, della campagna inglese o di quella tedesca. E poi ogni volta arrivo davanti a l’ingresso di quella casa e penso: “quando dovrò spiegare ai miei figli questa storia, la storia di un popolo che non è mai stato popolo ma massa di individui incapaci di comprendere che da soli non si arriva da nessuna parte, li porterò davanti a questa casa”. E’ quella che si direbbe una villa bifamiliare, nemmeno troppo brutta confrontata con ciò che la circonda. Appartiene a due fratelli, uno vive a sinistra e l’altro a destra. Hanno costruito un muro che divide lo spazio aperto e quattro cancelli, due per le persone e due per le macchine. Credo che questo sarebbe già sufficiente a definire il paradigma non fosse per un dettaglio che ci porta a ritenere che in questo caso arrivati al più basso dei livelli personali i due abbiano continuato a scavare. Non sono riusciti nemmeno a mettersi d’accordo su come rivestire il muro esterno: uno con la pietra, l’altro con le mattonelle.

Preparare il tempo

Preparare il tempo

Si approssima la stagione invernale. E per la prima volta nella mia vita ho la sensazione che questa possa rappresentare l’inverno del cuore e dell’anima ancora prima di essere l’inverno del corpo. Neanche l’apice solstiziale costituisce più una consolazione e una speranza di luce e apre semmai ad un tempo che non riusciamo a decifrare né a prefigurare e che per questo ci lascia spaventati ed attoniti.

In questo tempo senza precedenti in un’ottica generazionale veniamo spinti collettivamente al di sotto del livello di bisogni al quale la maggior parte di noi era abituata e questo ci catapulta in una nuova condizione in cui paure e certezze, gioie e dolori, nella loro contrapposizione agli estremi di una forbice molto più ampia, hanno un’intensità nuova. Non sono più impregnati da quel tepore proprio di un’umanità che si situa molto in alto nella piramide di Maslow, ma sono semmai caratterizzati da temperature estreme che ci sottraggono dalla fascia temperata del nostro pianeta e ci gettano, senza alcuna preparazione, in un angolo del nostro universo, stretti fra la temperatura di Plank e lo zero assoluto delle nostre nuove emozioni.

Impreparati e confusi ci ritroviamo sulla soglia di questo tempo con il rischio concreto, una volta che questa fase sarà passata, di ritrovarci fra i “sommersi” anziché fra i “salvati”.

In questo tempo, in questa contingenza propongo a me stesso una riflessione ed un proposito.

Io credo che questo tempo vada preparato con il tempo. Il “darsi il tempo” del mio amico Michele Nardelli diventa in questo momento più che mai attuale nella possibilità che esso ci concede di fermarci ad osservare, fare un respiro profondo, raccogliere le idee, prepararci per il affrontare il cammino, aprirci alla compassione, adempiere ai riti, prefigurare scenari.

E ci si impone la necessità di prepararci contemporaneamente al tempo del dolore e al tempo della gioia, perché non sappiamo davvero cosa ci proporranno personalmente i giorni e la stagione che viene e perché dobbiamo nutrire dentro di noi la speranza che a questo tempo di dolore collettivo seguirà inevitabilmente il tempo della gioia collettiva.

Questo impegno costituisce, a mio modo di vedere le cose, una specie di obbligo morale perché sarebbe uno spreco intollerabile che queste generazioni che abitano “in questo frangente storico” il pianeta non facciano tesoro di questa esperienza dolorosa, nella speranza di saperla mitigare qualora dovesse ripresentarsi, e non siano capaci, quando sarà il tempo, di vivere in pienezza e senza volgarità o banalità, la gioia che seguirà.

Per primo a me stesso propongo ogni giorno di preparare il tempo del dolore e non posso che rinforzare il proposito attraverso le parole di Primo Levi in “Se questo è un uomo” quando racconta le ultime ore a Fossoli e di come quasi tutti non fossero capaci né di prefigurare né di preparare quel dolore che già si approssimava ai cancelli del campo, dandosi a tutte le follie e alle nefandezze alle quali l’uomo si presta in queste occasioni e nell’ultima ora. Poi però improvvisamente agli occhi dei disperati si presenta la scena della famiglia dei Gattegno: “Nella baracca 6 A abitava il vecchio Gattegno, con la moglie e i molti figli e i nipoti e i generi e le nuore operose. Tutti gli uomini erano falegnami; venivano da Tripoli, attraverso molti e lunghi viaggi, e sempre avevano portati con sé gli strumenti del mestiere, e la batteria di cucina, e le fisarmoniche e il violino per suonare e ballare dopo la giornata di lavoro, perché erano gente lieta e pia. Le loro donne furono le prime fra tutte a sbrigare i preparativi per il viaggio, silenziose e rapide, affinché avanzasse tempo per il lutto; e quando tutto fu pronto, le focacce cotte, i fagotti legati, allora si scalzarono, si sciolsero i capelli, e disposero al suolo le candele funebri, e le accesero secondo il costume dei padri, e sedettero a terra a cerchio per la lamentazione, e tutta notte pregarono e piansero. Noi sostammo numerosi davanti alla loro porta, e ci discese nell’anima, nuovo per noi, il dolore antico del popolo che non ha terra, il dolore senza speranza dell’esodo ogni secolo rinnovato”.

E sempre a me stesso, prima di tutto, propongo in egual modo e nello stesso momento di cominciare a preparare il tempo della gioia.

Moni Ovadia nel suo “Contro l’idolatria” scrive:

…me ne avvidi alcuni anni or sono a New York un venerdì di primavera verso le 15, sulla soglia di un negozio di elettronica gestito da ebrei ortodossi che volevo varcare per fare acquisti.. Una gentile signora mi fermò e mi disse: – mi rincresce, ma stiamo chiudendo.

Protestai che lo sabbat iniziava alle 17,30. La signora mi domandò se fossi ebreo, dissi di sì, allora soggiunse: – e non capisce?

– Che cosa dovrei capire? – replicai. – Lo sabbat inizia fra più di due ore.

– E lei vuole che io riceva lo sabbat così. Non vuole che mi faccia una doccia? Che mi cambi d’abito?

Solo allora capii e ricevetti una memorabile lezione di timing. La gentile signora aveva guardato in anticipo il suo orologio per accedere con dignità alla dimensione sabbatica, che bandisce i confini, i ruoli e le disuguaglianze per erigere il tempo a santuario dell’essere umano.

Erigere il tempo a santuario dell’essere umano. Nel mio essere un appassionato camminatore non riesco proprio ad immaginare il mio come un santuario. Mi piace piuttosto immaginarlo come un’edicoletta votiva, di quelle che si trovano in alcuni crocicchi delle strade del Trentino, di Grecia o di Sicilia. Di quelle che invitano alla preghiera e al raccoglimento anche l’Ateo più convinto. Provare io quindi ad erigere, in questo tempo illeggibile che viene, il tabernacolo del mio tempo, strumento esso stesso per preparare il tempo che viene, strumento necessario per affrontare il dolore che non bisogna neanche aspettare perché già presente, per non sprecare la gioia che certamente arriverà. Uno strumento costruito nel raccogliere attorno a se ciò che di più prezioso la vita ci ha donato, di raccogliere noi stessi per essere capaci, anche nello smarrimento, di restituirci a noi stessi, ed , in fine, per accogliere gli altri.

Biden vs Mondello

Biden vs Mondello

Interessanti le nuove forme di comunicazione e di promozione. Ne discutevo prima con mio figlio. Le riflessioni che ne derivano sono naturalmente sconfortanti ma vale la pena farle. Mettiamo a confronto due cose. Una la ho scoperta poco fa grazie ad un’amica che la ha condivisa con me: lo spot promozionale “LOVE/VOTE” di Joe Biden. L’altro è il video che ha fatto tanto discutere dell’ormai celebre signora mondellana. L’accostamento vi sembra ardito? Intanto invito tutti a recuperare i due video e a vederli. Senza pensarci troppo su, soprattutto per quanto riguarda la visione del secondo. Perché quello che ne viene fuori è una lezione collettiva e personale importante.Il primo è stato definito da mio figlio “banale ma efficace”. Io credo che abbia ragione anche se forse all’aggettivo “banale” sostituirei quello “popolare” che meglio si adatta ad uno strumento promozionale che ha l’obiettivo di parlare, utilizzando diversi piani comunicativi, a 200 milioni di americani (e non solo). Io credo però che questo video sia anche “velleitario” e mi sorprenderei veramente se Biden avesse vinto le sue elezioni anche grazie ad uno strumento come questo. E’ infatti un video del genere che parla di “amore”, “solidarietà”, “compassione” che può determinare la vittoria del presidente degli Stati Uniti in questo mondo e in questo tempo?

Allora andiamo al video della signora di Mondello. Quello si che è un video efficace ed “autentico” (nel vero senso della parola: aderente alla verità), uno strumento di comunicazione e promozione che parla il linguaggio più diffuso in questo tempo nel quale alla parola “cuore” è stata sostituita in maniera definitiva la parola “pancia”. E non parlo nemmeno del video vero e proprio per il quale vale come chiosa il commento di mio figlio: “La parte finale, quella in cui parlano direttamente con Conte, mi veniva di andare la e spaccargli la faccia a tutti che questi se sanno chi è Conte lo sanno solo perché lo dicono pure i muri tra poco ma se gli chiedi chi è il presidente probabilmente ti dicono Berlusconi”. Parlo del video precedente, quello “improvvisato” sulla spiaggia di Mondello che ha dato i natali a questa interessante figura pubblica del nostro tempo. E’ quello la vera chiave di volta di tutta questa storia e di questo confronto che si può riassumere come segue: “io vado li…faccio un po’ di casino che richiami il video che voglio lanciare…rigorosamente senza mascherina…mi faccio portare in questura sapendo già che si tratta di reato lieve…pago una multa che se avessi dovuto pagare la pubblicità avrei speso cento volte tanto…esco su tutti i media prontissimi a recepire messaggi del genere…e il gioco è fatto”.

Mi ha molto colpito il video di Biden, in certi passaggi mi ha anche fatto rabbrividire, ma se il neo presidente aspira ad un secondo mandato gli consiglio di assumere per le attività di comunicazione istituzionale la suddetta signora e tutto il suo enturage.

Abbracci: congiuntivo esortativo

Abbracci: congiuntivo esortativo

Quando i leoni entrarono nell’arena noi avevamo già formato con i nostri corpi un cerchio al centro di essa, i vecchi e i bambini all’interno, e ci tenevamo abbracciati l’uno all’altro nel momento che sapevamo essere l’ultimo, senza speranza ci abbracciammo prima che i leoni ci vedessero e cominciassero il loro banchetto.

Quando il vulcano scagliò contro il cielo la sua nube ardente che poi come fulmine ricadde sulla città, a quelli che non avevano capito, a quelli che non avevano potuto andare, restò appena il tempo di abbracciarsi: la madre con il figlio, l’amato con l’amata, lo sconosciuto allo sconosciuto; e così spesso ci avete ritrovato secoli dopo, ancora abbracciati.

Quando all’unisono riaprirono i vagoni piombati e per la prima volta sentimmo quelle urla agghiaccianti e il latrare dei cani non ci rimase altro da fare se non abbracciarci, e ci abbracciavamo ancora mentre eravamo sulla banchina, e ancora ci abbracciavamo mentre quegli uomini facevano di tutto per rompere quegli abbracci a forza di colpi, a forza di spinte.

Quando anche l’ultima fioca lampada non resse ai colpi che le bombe invisibili ma terribilmente presenti infliggevano al guscio di cemento nel quale ci eravamo nascosti, quando le sirene dell’antiaerea sembravano gli ultimi suoni rimasti ad attraversare questo mondo, ci abbracciammo per lenire lo sconforto, ci abbracciamo perché l’incertezza dell’oggi si sciogliesse nel calore dell’abbraccio.

Quando vedemmo che il barcone si piegava da un lato e i primi di noi precipitavano in acqua prima di tutto pensammo ad abbracciarci, per l’ultimo saluto magari, per l’ultimo ricordo da nutrire nella stretta, un abbraccio fu l’ultima delle nostre azioni, l’abbraccio che il mare non tollera, l’abbraccio che il mare non sostiene, per provare a portare ancora un metro in avanti i bambini, per portare a tenere un metro più in alto il fratello.

Vi ricordate quando fummo sul monte? Sul monte del “buon fato” (che solo questo dobbiamo credere oggi voglia dire il suo nome) e ci mettemmo tutti in fila nella grande sala, per ricevere gli abbracci di tanta splendida gioventù che arrivava da ogni luogo del pianeta. E fummo persino disposti a pagarli quegli abbracci, non a loro naturalmente, ma offrimmo pegno per fare giungere abbracci a chi troppo lontano per riceverne quella sera.

Oggi che ancora una volta il male ci incalza ci dicono che abbracciarsi non è possibile. Non so, in questo tempo, quante e quali bugie ci stanno dicendo. Questa è certamente una di quelle.

Dovrebbero spiegarci piuttosto che non bisogna smettere di abbracciarsi, meno che mai adesso, ma che bisogna solo trovare modi nuovi, recuperarne di vecchi.

Non ci dicono che ci sono almeno tre modi per farlo.

Possiamo pensare/pregare, ogni mattina quando ci svegliamo possiamo rivolgere un pensiero, una preghiera a chi non vediamo da tempo, a chi rischia di non potere condurre la propria vita in maniera dignitosa, a chi è ammalato, a chi è solo, a chi amiamo e non ce lo sente dire da troppo tempo. Mettere così in moto una nuova, laica, comunione dei santi che possa ricostituire il corpo mistico di questo pianeta, da più parti dilaniato e percosso.

Possiamo agire, fare una chiamata da troppo tempo rimandata, mandare un messaggio, scrivere una email o anche una lettera vincendo la pigrizia che, in questo momento, ci vuole al fondo della china entropica. Possiamo cucinare un piatto gustoso e preparato con cura e portarlo a qualcuno che in quel momento possa gradirlo particolarmente, mettere da parte del denaro dovesse domani qualcuno averne bisogno, imparare ad abbracciare con le parole proprio come hanno fatto ieri le meravigliose maestre del mio bambino anche attraverso lo schermo di un computer, non smettere di incontrarsi, per come questo tempo consente, con coloro che ambiscono, se non a popolare la città dell’amore, quanto meno ad abitare la terra dei giusti, ed insieme continuare a produrre idee, a produrre sogni che nel contempo possano rendere migliori le altrui e le nostre vite.

Infine non dobbiamo rinunciare all’abbraccio li dove è ancora possibile, nella nostra famiglia, alla donna che amiamo, ai figli che ogni sera attorno alla tavola guardiamo con tutto l’amore che l’incertezza e l’aleatorietà della nostra condizione alimentano. L’abbraccio da dare nel primo mattino al Piccolo che sale in piedi sul divano per riceverlo, l’abbraccio da dare al Grande prima che la notte si accartocci sulla casa, l’abbraccio muto alla donna che giace al nostro fianco. E tutto questo non perché pensiamo che ciò non costituisca un rischio, ma perché riteniamo che questo è un rischio che non possiamo fare a meno di correre se vogliamo che il domani, che non riusciamo a prefigurare, ci restituisca intatti a noi stessi e alla nostra umanità.

E dunque, chi oggi tiene veramente all’uomo: abbracci!

(Questo post è dedicato a tutti coloro che avranno voglia di leggerlo ma soprattutto a coloro con i quali in questi ultimi venti anni ho condiviso un percorso di comunità dentro l’associazione Tulime nella speranza che in questo inverno impietoso saremo ancora in grado di conservare e mantenere vivo dentro di noi quel “verbo” che da solo è stato capace in tutto questo tempo di “congiungerci” e di “esortarci”.)

Doppio nodo

Doppio nodo

Era la mia dodicesima estate. Quella del dopo, quella del “da qui in poi”. Lungo la riva del fiume che avrebbe attraversato tutta la mia vita. Campo scout, in otto dentro la stessa tenda. Afflitto da un sonnambulismo incoercibile che un medico ottimista disse sarebbe finito da li a poco (e invece dura ancora oggi). Una notte di quelle mi sono svegliato. Un attimo per capire dove ero, cosa stava succedendo, per percepire il lento, rassicurante fluire del fiume a pochi metri dalla tenda. Ma a quel punto mi rendo conto che c’è qualche cosa di strano. E’ buio e scopro con le mani quello che non posso vedere con gli occhi: sono completamente vestito. E non vestito a caso. Ho indosso l’uniforme completa: i pantaloncini, i calzettoni, la camicia, il fazzolettone e anche il cappello. Poi tocco i piedi e ho persino gli scarponcini e gli scarponcini sono allacciati con il doppio nodo. Avete presente il doppio nodo? Uno fa il nodo normale delle scarpe e poi prende le due asole e le stringe ancora una volta attraverso un nodo semplice. Per una ragione misteriosa ed incomprensibile, nel sonno, mi ero vestito di tutto punto ed avevo, alla fine, allacciato gli scarponi con il doppio nodo.

Non ho mai avuto cura nella mia vita delle precauzioni. Mai pensato ad accumulare per il domani, mai avuto interesse nei confronti delle assicurazioni, delle garanzie e di tutto ciò che rendesse la prospettiva più probabile, il futuro un po’ meno incerto.

L’unica cosa che ho sempre fatto è il doppio nodo alle scarpe. Quella notte lo feci persino nel sonno, stamattina ancora, dopo tanti anni, come tutte le mattine in cui ho messo scarpe con i lacci, lo ho fatto nuovamente prima di andare in montagna. Prima tutte le incombenze del mattino, attraverso una serie che conosco bene fatta soprattutto di alimentazioni di svariati esseri viventi che popolano la mia casa, sono giunto al momento in cui, fuori dalla casa, dovevo mettere gli scarponi. Chinato verso terra ho dedicato quel secondo in più che ci vuole per il doppio nodo, quella cura aggiuntiva che da sempre dedico all’unica azione che destino ad una sicurezza aggiuntiva, ad un “non si sa dovesse servire…” che comincia con una scomparsa precoce durante l’undicesima estate e che nel tempo mi ha accompagnato in luoghi dove avere o non avere scarpe, che si leghino o meno, ha una stretta connessione con la sopravvivenza.

Il Greco invita un Primo Levi incapace di fare fronte da solo ai propri bisogni a non preoccuparsi in primo luogo del cibo, ma di pensare prima di tutto alle scarpe. Perché poi con le scarpe è possibile recuperare il cibo, ma non viceversa.

Un doppio nodo, che tenga assieme i lembi di una scarpa buona per sfuggire al terremoto o alla tsunami, buona per prendere la via della montagna dovesse giungere alle porte un nemico più o meno atteso, un doppio nodo che leghi a me coloro che amo con la certezza aleatoria e un po’ disperata con cui le stringhe assicurano le scarpe ai nostri piedi.

Feticci

Feticci

Agli inizi del 2000, quando cominciai le mie attività di cooperazione in Tanzania, dati non ufficiali parlavano di un incidenza di sieropositivi sull’altopiano di Iringa pari al 20% dell’intera popolazione. Il problema era talmente urgente e aveva conseguenze talmente devastanti che anche la chiesa cattolica, che in Europa diceva a gran voce che non era il preservativo la soluzione, in Africa se non era proprio fra i soggetti distributori quantomeno, senza troppo clamore, ne promuoveva l’uso. Continua a leggere “Feticci”

Bandiere

Bandiere

Non vado a Palermo da qualche giorno. Questi per noi siciliani sono i giorni di una triste ricorrenza. Eppure mai come oggi mi sembra che il tratto di autostrada fra Carini e Capaci sia bello, e luminoso e pieno di vento e di speranza.
Comprendo subito la ragione di questa mia sensazione. Proprio nei giorni che precedono l’anniversario dell strage, per ragioni a me sconosciute, sui piloni della luce che fiancheggiano l’autostrada vengono appese, fra loro alternate, le bandiere italiana, della regione siciliana e dell’ANAS (cosa questa per me ancora più misteriosa).
E le bandiere sono li che “impavesano” il percorso e “garriscono” al vento.
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