Da quando ho scritto il post dal titolo “L’autorizzazione” sono passati quasi tre anni e mi sembra adesso che ci sia qualche cosa da aggiungere, qualche cosa che nona avevo detto prima, su un argomento che mi sta molto a cuore, un po’ perché allora non l’avevo capita, un po’ perché nel frattempo le cose evolvono attorno a me. Nel titolo di questo post ho associato tre parole al sostantivo rischio: piacere, necessità e paura, vorrei cominciare dalla prima.

Mi sembra infatti che in questo nostro tempo ciò che prevale è il piacere del rischio. Il rischio infatti è l’anticamera del pericolo e il pericolo è ciò che “rischia” appunto di mettere in discussione uno degli elementi fondamentali della nostra vita, fino a porre in discussione la nostra vita stessa. Ne consegue una strategia di sopravvivenza che associa al rischio una produzione nel nostro corpo di una serie di ormoni fra i quali prevale l’adrenalina. Questa ha una funzione precisa, accelera il battito cardiaco, restringe i vasi sanguigni, dilata le vie aeree bronchiali, aumenta l’apporto energetico, insomma eccita tutti i nostri recettori, ci rende vigili, pronti, reattivi,

appunto con la finalità di permetterci di “sfangarla” al cospetto di qualche cosa che percepiamo come un pericolo. A tutti gli effetti quindi una specie di sostanza psicotropa autoprodotta. Uno strumento quindi che però nel nostro tempo sta diventando uno scopo. E’ questo quello che intendo quando parlo di “piacere del rischio”. Ottenere da un’esperienza una bella scarica di adrenalina che ci faccia sentire così come l’adrenalina appunto ci fa sentire. Diverse sono le pratiche che ci portano ad ottenere questo effetto “stupefacente” (e l’uso che faccio di questo termine nulla ha a che fare con lo stupore ma appunto con le sostanze psicotrope di cui sopra). Tutte quelle attività, per esempio, oggi molto in voga che rientrano all’interno del termine “challenge” (la sfida appunto). Pratiche attraverso le quali rasentare o addirittura sconfinare nel pericolo, per quali il rischio non è più un preavviso da tenere da conto ma piuttosto un allarme da superare per procurarsi quello che a tutti gli effetti potremmo descrivere come uno “sballo” autoindotto. Oppure quelle attività nelle quali il rischio è di fatto azzerato (per quanto sia possibile in cose che riguardano l’uomo) e che noi facciamo prendendo in qualche modo in giro il nostro corpo e il nostro cervello. Rientrano all’interno di queste attività alcune oramai molto diffuse come il bungee jumping, le zip line, i parchi avventura, i parchi tematici. Un altro modo per usare, in questo caso un “falso rischio” a fini psicotropi. E questo per quanto riguarda la prima parte della mia riflessione: gli esseri umani sono sempre più portati verso la replicazione di stimoli dai quali ottenere una qualche forma di eccitazione senza più che questi stimoli siano considerati strumenti ma essi stessi fini. Immagino che funzioni così anche per la ludopatia, lì dove la persona affetta da questa sorta di dipendenza non ha più interesse nel piacere della vittoria ma cerchi piuttosto l’emozione collegata al rischio di perdere.

Esiste, in contrapposizione a ciò, una necessità del rischio? Io credo di si. Nel post prima pubblicato e in altre riflessioni scritte in altri tempi scrivo appunto che il rischio sia una necessità ogni volta che intendiamo attivare una relazione profonda con il nostro Pianeta e offrirci all’incontro con esso. John Muir che sale fino alla cima di una conifera in un giorno di tempesta per provare a “proprie spese” cosa voglia dire essere appunto agitati dal vento, oppure che si spinge sulla cengia più esposta di una cascata, col rischio concreto di mettere un piede in fallo e precipitare nel vuoto, perché solo lì ha la possibilità di vivere la cascata, di percepirla in tutta la sua potenza, di sentirne il suono, il profumo, sono altrettanti esempi di come il rischio non è più funzionale a se stesso, non è più obiettivo, ma non deve, al tempo stesso, essere più percepito come un fattore limitante, un vincolo all’incontro che con tutte le nostre forze vogliamo avere. Il rischio che sconfina nella paura è infatti qualche cosa che ci vede perdenti, qualunque sia il gioco che stiamo giocando: ci fa perdere sul tavolo della sicurezza perché non abbiamo più la lucidità per affrontare adeguatamente il rischio, ci fa perdere sul tavolo della relazione perché ci limita e ci imprigiona in una rete di preoccupazioni che finiscono per tenerci a quella che crediamo essere “distanza di sicurezza” che alla fine è però soltanto una “distanza incolmabile”.

E se questa necessità del rischio si potesse applicarlo oltre che alla relazione con il nostro pianeta anche alle relazioni fra noi esseri umani? Se anche lì la paura ci stesse “tarpando le ali”, se anche lì il timore di farci male ci stesse tenendo a “distanza di sicurezza” rendendo impossibile l’incontro? Se anche lì l’impossibilità dell’incontro ci facesse propendere per succedanei “sicuri” come può essere la sostituzione della relazione con gli esseri umani con una relazione priva di rischi quale quella con un animale, quale per esempio il cane che è stato da noi “creato” proprio per avere a disposizione un essere vivente che non presenti rischi relazionali?

Anche in questo senso credo che il rischio diventi una necessità, diventi appunto un “rischio da correre” per tenere sotto controllo la paura che non ci consente di scorgere al di là dell’incontro l’opportunità per arricchire la nostra vita e per continuare a dare senso ai nostri giorni.

Pubblicità

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...