Il titolo della foto è: “l’orto invernale impavesato di gocce di rugiada”. Avrei potuto scrivere “ingioiellato”, sarebbe stato bello scrivere così, oppure “imperlato”, e anche quella è una bella parola, o ancora “impreziosito”. Ma io preferisco sopratutto “impavesato”. Usare questa parola di tanto in tanto nei miei scritti è un rito, anzi una specie di voto fatto ad una persona.
Io avevo due zii: Filippo e Ginette. Lui era fratello di mio padre. Loro sono stati per me genitori, nel tempo in cui avevo smarrito gran parte della relazione con “quello che restava” della mia famiglia di origine. Loro mi hanno restituito a me stesso. Ginette era francese, di Parigi. La storia d’amore di Ginette e Filippo meriterebbe un libro che mi piacerebbe dire che scriverò anche se so che non è così, non per incapacità ma per difetto di quelle che sono le informazioni fondamentali. Fatto sta che Ginette si era trasferita a Palermo poco dopo avere conosciuto Filippo e lì è rimasta per tutta la vita. Ginette ha imparato l’italiano così come Filippo ha imparato il francese. Loro, fra di loro, parlavano in italiano e litigavano in francese. Ginette fece subito dell’italiano una sua missione. Per come era fatta l’italiano non doveva essere solo imparato ma imparato, parlato, scritto meglio della maggior parte degli italiani che aveva conosciuto. E così fu. Tolta una deliziosa pronuncia con tanto di erre moscia che non perse mai, il suo italiano non era soltanto impeccabile, era anche colto, ricercato, per certi versi finanche esoterico e in fondo anche un po’ snob.
Ricordo con chiarezza il giorno in cui arrivai nella loro fantastica casa di via Ausonia e Ginette era reduce da non so quale delle sue innumerevoli letture. Fu quel giorno che mi disse: “impavesare non è un verbo bellissimo?”. Ed io, che nemmeno sapevo cosa significasse, dissi che sembrava una parola molto bella ma che se l’avesse usata parlando con “italiani” quasi nessuno l’avrebbe capita. Io purtroppo non ricordo parola per parola quello che Ginette mi disse allora, adesso rimpiango di non averlo registrato (così come rimpiango di non avere registrato molte delle cose che ci siamo detti e molti dei momenti passati assieme), ma ne ricordo ancora il significato generale che era più o meno questo: “non dobbiamo essere parsimoniosi con le parole, non dobbiamo vergognarci di utilizzare termini desueti e antichi, soprattutto se queste sono parole belle, parole che hanno un suono speciale, parole che impreziosiscono tutta una frase, o magari un intero discorso, o addirittura noi stessi che le diciamo. Il pavese, un tempo scudi sulle fiancate delle navi, oggi sfilza di bandierine tese da un punto all’altro dell’imbarcazione, è un’immagine bella, un’immagine di cura e tutta questa cura e questa bellezza le porta con se nel discorso che la parola contiene, sul volto di chi la parola pronuncia”. Ginette cara del mio cuore, anni dopo sarebbe venuto il tempo della tristezza e del pianto, io però quella parola, che quel giorno grazie a te ho imparato, me la porto dentro, assieme a tante altre che nel frattempo ho imparato, e di tanto in tanto la uso, in quello che dico, in quello che scrivo, e così farò fino a quando sono qui, fino a quando non ci rincontreremo da qualche parte (e su questo non nutro alcun dubbio). Sono certo che quel giorno sarà un bel giorno di inizio primavera, magari lungo una di quelle spiagge che tanto amavi, e mentre nuvole maestrali “impaveseranno” quel cielo vi vedrò arrivare, camminando lenti mano nella mano, e sentirò il cuore in gola e le lacrime agli occhi.