Sono un fanatico dei dualismi. Non i dualismi che definiscono due estremi ma quelli che disegnano i confini di un’area all’interno della quale io mi possa sentire a mio agio, possa condurre le mie esplorazioni senza eccessivo timore di perdermi. Chi pensa di me che io sia un pusillanime ha infatti ragione. L’impressione che do di persona votata all’esplorazione del mondo selvaggio, della natura inesplorata, è appunto solo un’impressione e per di più sbagliata. Ho bisogno di “estremi doppi” che facciano del territorio da esplorare (con i piedi o con la mente) un territorio ristretto, un’entità geografica ben definita, piena di unicità ma limitata nello spazio.

Per questo i miei sogni di vita in qualche regione persa del Canadà o dell’Alaska sono e resteranno (a maggior ragione adesso) solo sogni. Mi si addicono di più le isole, quelle che hanno magari al centro una montagna (Marettimo, Pantelleria), o al più un arcipelago (le Azzorre!) dove è possibile in pochissimo tempo passare dal mare alla vetta, attraversando e vivendo tutto quello che, all’interno di quest’altro dualismo, esiste.

Anche nella poesia adoro i dualismi, quelle frasi, strofe, che in poche parole e nell’apparente scontro/confronto fra due opposti, individuano con chiarezza uno spazio all’interno del quale si può immaginare tutto, senza essere colti dallo sgomento di dovere affrontare un’esplorazione di luoghi dell’anima indefinitamente estesi.

Roberto Vecchioni in “ho sognato di vivere” con:

Ma eran cose senza senso,
Di nessunissima importanza,
Tra una luce limpidissima
E il buio di una stanza,

Dove ti ricordo bella, in piedi,
A tenermi per la mano,
Mentre ora sono qui con Dio
Che non ti rassomiglia nemmeno

crea uno spazio accettabile “tra una luce limpidissima e il buio di una stanza”, uno spazio di vita esiguo, come quella strettissima fascia cosmica all’interno del quale il nostro pianeta ricade, che è l’unico possibile che ci eviti, fino a quando è possibile, l’incontro con la divinità ineffabile e numinosa (e che nemmeno assomiglia, a volerla dire tutta, alla donna amata!).

Oppure Francesco Guccini che nella sua “Ti ricordi quei giorni” dice:

Qui…un poco piove e un poco il sole,

Aspettiamo ogni giorno

Che questa estate finisca,

Che ogni incertezza svanisca…

dove questa volta il dualismo conducente è quello pioggia/sole e spetta agli astri e alle meteore stabilire quali siano i confini (in questo caso squisitamente padani) del nostro esistere, lo spazio entro il quale si alternano le stagioni e le nostre incertezze, a volte, trovano risposte.

Nell’esplorazione della natura, nella poesia e anche nel mio condurmi quotidiano in un bosco di domande cerco sempre dualismi che fungano da confortanti pietre miliari (tò…una pietra miliare…allora questo posto non è così perduto e sconosciuto…almeno quello che ha messo la pietra miliare da qui deve esserci passato!), da cippi posti a delineare un confine: il bene e il male, la giustizia e l’amore, il merito e il bisogno, i piano personale e quello collettivo.

Io credo che mai, come in occasione di questa pandemia, i miei dualismi siano stati sottoposti ad un vero e proprio stress test e soprattutto per quanto riguarda il dualismo “piano personale/piano collettivo”.

Sul piano collettivo infatti ho vissuto il periodo della quarantena con sofferenza veramente inaudita. Le notizie tragiche ed agghiaccianti che arrivavano dalle zone maggiormente colpite mi tenevano in una condizione di perenne sconforto. La conferenza stampa della protezione civile, alla quale non riuscivo a sottrarmi, era diventata il mio personale e quotidiano rito funesto e funereo che come tutti i riti necessitava di una preparazione e richiedeva l’assoluto silenzio. L’immaginare i problemi che una simile situazione avrebbe certamente provocato sul piano economico, oltre che su quello sanitario, a persone vicine e lontane, che magari già prima si trovavano a fronteggiare situazioni emergenziali, è diventato per me un chiodo fisso e causa di frustrazione e senso di impotenza.

Sul piano personale, invece, il lock down ha rappresentato per me, e mi vergogno a dirlo, uno dei periodi più felici della mia vita. Il tempo che si allargava nuovamente, una primavera, un’intera primavera, da vivere nel mio giardino, nel mio orto, con le mie api, e nel grande appezzamento abbandonato che li circonda, i bambini e Veronica sempre a casa con me. Potere realizzare il mio sogno di spiare Cesare in ogni minuto che lui trascorre in classe (anche se una classe virtuale), non perdermi un solo secondo di Zaccheo che, come in uno di quei video in time lapse di piante e fiori, letteralmente sboccia davanti ai miei occhi, Veronica con la quale stare ad osservare, in silenzio e senza urgenza, tutto il buono di cui siamo circondati, fino a quando dura, fino a quando ce n’è.

Non ho mai creduto, come dice il Greco di “Se questo è un uomo” che guerra è sempre, ma non credo nemmeno che la guerra sia un accidente che di tanto in tanto appare nello sterminato territorio della pace degli uomini. Sono invece, come Primo levi, portato a credere che la pace, la gioia, siano una “tregua” incastonata fra due guerre, brevi scampoli di serenità, forse tutto ciò che l’uomo merita (!) o che è effettivamente capace di rivendicare per se stesso, stretti all’interno di una teoria di guerre infinite.

Credo che questa della quarantena abbia rappresentato per me appunto una tregua. E per giunta una “tregua delle tregue”, perché inattesa, perché improbabile enclave immersa in un mondo in guerra e per questo ancora più preziosa, anche se malamente macchiata dalla vergogna che inevitabilmente coglie l’uomo quando vive la gioia inconfessabile di restare vivo, con i propri cari, mentre intorno a se altri muoiono per una ragione della quale lui non è colpevole (e anche li Primo Levi ci ha spiegato esattamente in cosa consiste questa esperienza). Tregua perché zona franca di una guerra talmente grave, talmente “guerra” da rendere tutte le nostre misere battaglie quotidiane insignificanti e che quindi è capace di farci vedere quanto le nostre malattie siano in realtà fisime, i nostri problemi passatempi, le nostre paure lussi.

Ed alla fine questa tregua, credo come tutte le tregue, mi ha lasciato un dono ed al tempo stesso una maledizione.

Nel momento in cui Zaccheo ha detto l’ultima parola durante il suo anomalo esame di terza media ho capito che quella tregua era finita e che mi aveva consegnato il dono di vivere uno di quei sogni in cui tutte le persone care e perdute sono ancora vive e tu le guardi e sei felice e sorpreso per quanto stiano bene e siano ancora belle come nel loro tempo migliore, anche se dentro di te lo sai che stai vivendo un sogno che da li a poco finirà.

La maledizione che mi consegna invece è insita nel significato stesso di tregua: la sensazione che alla fine, a conti fatti, ciò che ti resta veramente è la certezza di trovarti dall’altra parte di quella tregua solo un po’ più vecchio, e un po’ più stanco, e un po’ meno capace di affrontare la prossima guerra.

2 pensieri su “La tregua e la pandemia

  1. Credo che il dualismo sia parte delle persone intelligenti, quelle che non si insabbiano, che non restano li ferme a pensare o vivere la prima cosa che passa o la prima scelta.
    Guerra e tregua…sono dell’umanità, inevitabilmente. ormai ne sono convinta.

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