Einstein ci ha insegnato grazie alla sua elegante teoria che il tempo è un fattore relativo. Ha enfatizzato molto meno il fatto che, a causa delle sue complesse relazioni con il tempo e con la gravità, anche lo spazio lo sia. Questo vale in fisica ma anche nella percezione quotidiana che abbiamo delle cose. Ci sono giorni che ci sembrano durare un attimo e attimi che invece sembrano durare una vita. Ci sono distanze brevi che sembrano infinite e distanze enormi che ci sembrano minuscole.
Ogni volta che penso ad una lunga distanza da coprire penso sempre a quella che separa la costa della Tanzania dal suo entroterra, Dar es Salaam dal “mio” villaggio di Pomerini, sull’altopiano di Iringa.
Eppure a me quei 600 chilometri non mi sono mai sembrati uno spazio incolmabile, non li ho mai vissuti come una distanza cosmica.
Quel percorso non è molto diverso da quello che Henry Morton Stanley fece nel 1871 impegnato nella ricerca di David Livingstone, percorso alla fine del quale da buoni anglosassoni non si saltarono al collo l’un l’altro riempiendosi di pacche, baci e abbracci, come avrebbe fatto qualunque “latino”, ma che si sarebbe invece concluso con la celebre frase “il Dottor Livingstone, suppongo”.
Certo adesso quel percorso oggi si fa su una strada abbastanza comoda anche per gli standard europei ma resta sempre una distanza difficile da coprire in meno di dodici ore.
Io quella strada la ho fatta in tutte le condizioni: alla guida notturna di un fuoristrada sgangherato con il quale ho rischiato di andarmi a schiantare sulle gambe di una giraffa che aveva deciso di passare la notte al centro della carreggiata, su un pullman improbabile nel quale la popolazione umana era decisamente inferiore a quella avicola, squassato da una malaria devastante dalla quale mi ripresi misteriosamente proprio lungo quel percorso, con l’animo e l’urgenza di un figlio che si precipita nel più breve tempo possibile verso casa perché suo padre in Italia ha avuto un incidente mortale.
Nonostante tutto questa strada di parchi, incredibili animali selvatici, baobab giganteschi, piantagioni di agave a perdita d’occhio non mi è mai sembrata lunga. Come tutti quei percorsi che prima di essere segmenti che congiungono una partenza ed un arrivo rappresentano delle pause, sono delle tregue sospese fra un cimento ed un altro, a me questa strada è sembrata sempre troppo breve e ho desiderato che durasse a lungo, che durasse di più.
Ieri il mio grande ha preso una decisione. Nei giorni scorsi abbiamo attrezzato una minuscola casetta (una stanza 4 per 4) staccata dal corpo centrale della nostra casa di una decina di metri e fino a quel momento adibita a magazzino, a “covo adolescenziale” di Zaccheo. Lui all’inizio la ha abitata solo di giorno ma rivendicando sin da subito per se la possibilità di abitarla anche di notte. Accampando diverse scuse abbiamo resistito ma poi ieri sera, avendo esaurito tutti i pretesti, abbiamo dovuto cedere.
Lui si è munito di piumone e mentre con il Piccolo vedevamo “Insideout” (mai cartone fu più adatto al momento) lui, quatto quatto, si è andato ad acquartierare nella sua nuova dimora.
Alle 5 il Piccolo mi ha svegliato per bere. A poca distanza da lui c’era quel letto di suo fratello “veramente” vuoto, non “definitivamente”, lo so, ma ho imparato anche che “veramente” è il primo passo che porta a “definitivamente”.
Ho aspettato nel mio letto, occhi al soffitto, che si facesse un’ora decente per andare a svegliare Zaccheo e quando sono uscito ho capito di quanto quei pochi metri che dividono la nostra casa dal “covo”, quelli si, potrebbero diventare presto una distanza incolmabile. Mi è sembrato in quel brevissimo spazio di attraversare oceani, di valicare catene montuose, di percorrere sentieri impervi, di affrontare savane spietate.
E quando finalmente sono giunta sulla soglia della casetta e ho infilato la testa fra la porta e il muro invece che dire “Svegliati Zaccheo che è ora di colazione” avrei voluto dire “il Dottor Livingstone, suppongo”.
Il bello è vedere chi è ancora molto giovane cercare la propria strada, il proprio spazio , la propria solitudine con un entusiasmo che a molti di noi cresciuti manca un po’.
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Da gioia e tristezza nello stesso tempo…me lo ha insegnato ieri “Insideout”…
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A me accade a volte con la stanza di mia figlia, che è difronte la mia…mi sembra un percorso lunghissimo , quando vedo la sua porta chiusa vuol dire “stop”. E mi viene il magone, ora è così, poi sarà realtà…
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temo di si…
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