Il Piccolo mi fa impazzire. Per tante ragioni in realtà ma ce ne è una che le supera tutte. C’è una parte del giardino nella quale lui e suo fratello amano giocare. Questa zona è separata tramite una ringhiera da quel grande “territorio di nessuno” che da sempre chiamiamo “bosco dei cento acri”. La ringhiera è il confine che viene continuamente attraversato da oggetti destinati a scomparire in questo enorme buco nero. Palloni e palloncini “arroccati” più o meno per ragioni naturali, giocattoli vari che per motivi inspiegabili finiscono dall’altra parte, innumerevoli dardi, proiettili, frecce e freccette di armi quasi sempre improprie, oggetti di ogni tipo che i due si lanciano durante le innumerevoli lotte e battaglie, altri che oltrepassano il confine per un’innata attitudine al lancio del Piccolo soprattutto quando qualche cosa non va per il verso giusto (giusto per lui naturalmente).

E mai, mai una volta che uno dei due senta il bisogno di fare un giretto, attraversare il grande cancello che limita il nostro giardino a nord e andare a recuperare un po’ di quegli “oggetti smarriti”. Tocca naturalmente a me di tanto in tanto sconfinare e recuperare tutto ciò che nei giorni è andato perduto.

Ieri pomeriggio ho varcato nuovamente il cancello e dall’altra parte la solita scena di oggetti dispersi: un palloncino azzurro, un paio di guanti da portiere, qualche dardo di Nerf. Mugugnando fra me e me rivendicazioni da padre e lamentazioni di raccoglitore frustrato, questa volta non ho voluto recuperare tutto ordinatamente e mi sono limitato, con una certa “raggia” a fare, in senso inverso, quello che il piccolo quotidianamente fa: li ho rilanciati dall’altra parte.

Qualche ora dopo ero anche io in giardino e li guardavo giocare come fanno sempre: cuccioli maschi eternamente presi in una lotta senza apparente significato, il Grande impegnato a non fare troppo male al Piccolo, il Piccolo impegnato a colpire il Grande sugli stinchi con calci di una precisione chirurgica.

E improvvisamente il Piccolo si è accorto che i guanti, il palloncino azzurro e i dardi erano nuovamente e miracolosamente dalla nostra parte e con stupore ha detto al fratello: “guarda Zacco…il vento ha riportato tutto da questa parte”.

Era il momento per dirgliene quattro, il momento per dargli una bella lezione su come sia necessario curarsi delle proprie cose, di come la nostra pigrizia finisca sempre per essere pagata con il lavoro degli altri. Era il momento di venirsene fuori con una di quelle frasi radicate nella retorica paterna tipo: “credi che questi oggetti non abbiamo un costo? Pensi che i soldi crescano sugli alberi?”. Insomma era il momento giusto per tirare fuori ciò che anche etimologicamente è proprio al ruolo del padre: una bella paternale.

Ma poi mi sono guardato attorno. C’erano loro che ruzzavano felici immersi in questa luce pagana che tagliava l’orizzonte ad occidente, c’era la campagna attorno ricoperta di quell’erba ingrassata da tutta la pioggia che è caduta negli ultimi giorni, i gabbiani dal mare che intrecciavano con le poiane dai monti infiniti otto acrobatici, fiori che occhieggiavano da ogni anfratto, un profumo appena accennato a dare voce ad una primavera ancora timida e soprattutto un vento leggero che carezzava tutto e che instancabile mi ripeteva: “lasciagli credere che sia stato il vento…lasciagli credere che sia stato il vento…”. Dentro di me in un attimo qualunque furore paterno si è spento, mi sono seduto e ho continuato a guardarli giocare.

Un pensiero su “Lasciagli credere che sia stato il vento

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