Il 3 gennaio 1946 Primo Levi scrive quella che per me è la sua poesia più bella: “Cantare”. Sta per finire la sua lunga peregrinazione sovietica e nonostante lui sia uno di quelli che ha guardato il male assoluto negli occhi e a questo incontro è sopravvissuto, ritiene che sia ancora possibile “cantare”.
In quella breve “tregua” fra una guerra e l’altra (ché non è forse “guerra sempre”?) Primo riesce a cantare, vuole cantare e lo fa con versi imparegiabili perché è venuto il tempo per farlo. Il male è alle spalle, la “brutta cosa” è andata via e domani sarà ancora possibile non essere altro che uomini, non più martiri, nè infami, nè santi.
CANTARE
Ma quando poi cominciammo a cantare
Le buone nostre canzoni insensate,
Allora avvenne che tutte le cose
Furono ancora com’erano state.
Un giorno non fu che un giorno:
Sette fanno una settimana.
Cosa cattiva ci parve uccidere;
Morire, una cosa lontana.
E i mesi passano piuttosto rapidi,
Ma davanti ne abbiamo tanti!
Fummo di nuovo soltanto giovani:
Non martiri, non infami, non santi.
Questo ed altro ci veniva in mente
Mentre continuavamo a cantare;
Ma erano cose come le nuvole,
E difficili da spiegare.
Nel 1945 per la prima volta Salvatore Quasimodo pubblica la sua “Alle fronde dei Salici”. Quasimodo è invece immerso nell’incubo dell’occupazione tedesca di Milano. Non riesce a cantare, non può cantare, il verso non sgorga dalla fonte della sua ispirazione che sembra inaridita, la poesia stessa sembra mostrare, al cospetto del dolore e del male, tutta la sua inutilità, tutta la sua impotenza.
Le sue parole voglio questa sera riportare in questo post perché è quello che sento nel mio cuore in queste ore nella speranza che presto, come per Primo Levi, torni il tempo di cantare.
ALLE FRONDE DEI SALICI
E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.
stupenda e raggelante la poesia di Quasimodo.
sì, è adatta a questi nostri giorni tristi, ma ci fa anche riflettere sulla giusta dimensione da dare al nostro dramma, infinitamente più piccolo di quello narrato nella sua poesia.
ml
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Il dramma, come tutto, ha sempre i suoi risvolti personali e collettivi…
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La poesia di Quasimodo mi lacera ogni volta che la leggo…
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Io e lui abbiamo una “lunga storia”…
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La racconti…
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