Mi sono svegliato che albeggiava appena. Ho aspettato ancora un poco al caldo, nel letto, per sintonizzare la mia veglia con i rumori leggeri della casa. Poi mi sono alzato. Ho indossato in fretta i pantaloncini, calzettoni, le vecchie scarpe da trekking. Ho messo qualche cosa nello zaino e sono partito. In macchina giusto il tempo di raggiungere le pendici del monte. Giusto la strada.
Le bacchette alla tacca 97 e comincio la sterrata. Questa strada che con i bambini sembra lunghissima oggi va via in un lampo. So a cosa aspiro, cominciare l’ascesa del Columbrina quando il sole apparirà dietro le creste dei monti. Arrivo al sentiero proprio quando i raggi preludono all’apparire della sfera. Mi incammino dandogli le spalle. Non ho bisogno di guardarlo, quando apparirà sarà lui a chiamarmi. Ad un tratto lo sento e mi volto. Ha inondato la bioregione vicina ed adesso tracima nella mia. La luce liquida scorre sulle pendici dei monti e si riversa nel catino del Nocella. Tutto si riempie in un attimo. Ed io faccio quello che ho sempre fatto, che faccio da una vita, appena uscito da una tenda umida e gelata, sui pianori improvvisamente conquistati dall’alba, sulle pendici dei monti dei miei giorni: volgo al sole i palmi delle mani. E in un attimo mi riconnetto, inserisco le mie prese nella corrente dell’universo, torno all’energia cosmica: le gambe, le mani, il volto. Mi giro e continuo. Sotto ai miei piedi una campagna sofferente. Non piove da settimane. I giaggioli che in un tempo normale sarebbero appena sbocciati sono già sfioriti, solo la calendula prova a farsi coraggio mentre la ferula giace prostrata e stanca.
Qualche mucca mi guarda con disinteresse, qualche altra mi rivolge un muggito di circostanza. Supero la prima balza e in pochi minuti sono sulla seconda, quella dei cardi selvatici. Lumache a succhiare i calcari, spine ai polpacci e i vecchi tralicci ad indicare la via.
Adesso sono sulla portella e mi sporgo a nord sulle rupi. Il Columbrina vergognoso nasconde nel suo cono d’ombra l’orribile zona industriale, finge che la piana sia ancora quella di un tempo, dimentica le troppe case, le sorgenti e i fiumi scomparsi.
Mi distendo su un quadrato d’erba che conosco, è quello dove sempre ci distendiamo da quando il Columbrina è entrato nella nostra vita. Occhi al cielo, il tempo per un arancia, un sorso d’acqua dalla borraccia del Piccolo, cinque rondini impossibili a tagliare l’azzurro.
E’ già ora di scendere. Per la prima volta sulla seconda balza, prima del bevaio antico, incontro due essere umani. Hanno i cesti in mano. “Trovato niente?” mi chiedono. “Io non cercavo niente” rispondo, sapendo di mentire “e comunque non c’è niente da trovare”, lo dico sapendo che loro cercano funghi, forse asparagi, “è tutto disperatamente secco”. “Almeno faremo una passeggiata” dicono i due, decisamente più in sovrappeso di me. Ci diamo il cambio sulla montagna augurandoci il buon giorno. Il display della macchina segna le 9,30 e una temperatura esterna di 18,5 °, la stessa che i giornali più tardi mi diranno esserci oggi sullo Joerg Plateau, in Antartide.
L’hai scritto così bene che mi sembrava di essere lì
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ecco chi era allora quella figura che ho intravisto con la coda dell’occhio…
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Ha ha ! Correvo in discesa vero?!
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no…mi sembrava ti nascondessi dietro un olivastro…
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Un quadro!
Mio suocero mi diceva che oggi da lui 16 gradi…troppi, decisamente troppi.
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purtroppo si
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