“Papà devo imparare a memoria nove versi della Divina Commedia…mi aiuti?“.
Zaccheo ha una professoressa che lo sta facendo innamorare della Divina Commedia, un dono impagabile. Io, ai miei tempi, non sono stato altrettanto fortunato.
Lui, bambino dalle rare e inconfessate passioni, è evidentemente molto preso dall’opera del sommo poeta. E impara a memoria interi brani con una certa facilità e con notevole interesse.
Oggi tocca al XXVI canto, il Canto di Ulisse.
So che se voglio che apprenda in fretta dovrò trovare un modo per toccargli la fantasia, se vorrò che ne conservi ricordo indelebile dovrò toccargli il cuore.
Immediatamente mi viene (come spesso accade) in aiuto Primo Levi in “Se questo è un uomo”.
Recupero il libro dalla Bibliocucina, gli occhiali, e mi accingo a leggere per lui il capitolo omonimo, quello in cui Primo Levi descrive il Pikolo di nome Jean e il suo viaggio di andata e ritorno dalle cucine di Aushwitz in un giorno di prima estate.
Mi rendo conto sin dalle prime righe di muovermi in un terreno accidentato. Per tante ragioni.
In primo luogo perché sto tentando di raggiungere una Divina Commedia che conosco troppo poco attraverso un autore che conosco molto bene.
Mi sembra di essere nel racconto di Borges “La ricerca di Averroè”, quel racconto così magistralmente scritto per dimostrare la presunzione di noi occidentali di conoscere i filosofi classici greci nell’interpretazione che hanno dato, secoli dopo, filosofi classici arabi per i quali, per esempio, concetti fondamentali come quello del teatro erano culturalmente inconcepibili.
Oramai però sono in ballo. Dico a Zaccheo che secondo me la Professoressa ha scelto le tre terzine proprio per lui che troppo spesso dimostra di non onorare il proprio potenziale, di non essere all’altezza di aspettative ben riposte ma raramente soddisfatte, di non mettere i propri talenti al servizio di chi magari ne ha avuti meno di lui.
Poi continuo a leggere. Vorrei dirgli tante cose. Esito. Vorrei che capisse da solo. Tentenno.
Sento che anche io annaspo nello stesso fango in cui Primo Levi avanza. Un fango appiccicoso secreto da un connubio impossibile: l’incontro fra ciò che di peggiore l’uomo sia riuscito a fare all’uomo con ciò che di più bello l’uomo stesso abbia prodotto nel tempo per l’uomo.
Vorrei dire a Zaccheo che ogni volta che qualcuno tenterà di far venire meno i presupposti del suo essere umano è proprio nella bellezza prodotta dall’essere umano stesso che potrà trovare forza ed ispirazione.
Vorrei dirgli che forse c’è spazio per il nostro spirito anche li dove la carne sembra essere troppo pesante per ammettere qualunque elevazione e ci costringe con lo sguardo a terra senza darci la possibilità di sollevarlo al cielo.
Vorrei dirgli che l’inferno di cui Dante parla non è un luogo in fondo così fantastico né purtroppo così improbabile, proprio come dimostra la storia che Primo Levi sta raccontandoci e come dice Calvino nelle sue “Città invisibili”:
“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”
Ma non dico niente di tutto ciò. Spero che queste idee passino attraverso le parole di Primo Levi. Io di mio sono già occupato a tenere sotto controllo la mia voce che in troppi passaggi rischia di rompersi per l’emozione e la commozione.
Sento che anche Zaccheo soffre con me per l’impossibilità di Primo di ricordare tutti i versi del canto, sento che questo potrà servire a Zaccheo per volere domani ricordare: il canto, la storia del lager, la storia dei lager, le ragioni del rifiuto.
Torniamo con Primo e Jean verso la Buna. Credo che a me e a mio figlio piacerebbe togliere loro per un attimo dalle mani la stanga grazie alla quale trasportano la pentola da 50 chili piena di zuppa, per alleggerirli un poco dal peso e dalla fatica, per fare noi due un po’ di quel percorso.
Anche io a questo punto trattengo il mio Piccolo, voglio che il brano non si chiuda senza che lui sappia prima che si sta chiudendo, senza che lui abbia la possibilità di soffermarsi un attimo, con tutti i suoi sensi e la sua mente accesi sull’orlo della fine, come Primo Levi sul confine di quella terzina, come Ulisse sul bordo della terra:
“Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo «come altrui piacque», prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui…
Siamo oramai nella fila per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli altri Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle.Kraut und Rüben? – Kraut und Rüben –. Si annunzia ufficialmente che oggi la zuppa è di cavoli e rape: – Choux et navets. – Kaposzta és répak.
Infin che ’l mar fu sopra noi rinchiuso”
Solo a questo punto sollevo gli occhi su di lui. E’ immobile con lo sguardo un po’ perso.
“Hai capito qualche cosa Zaccheo? Hai capito qualche cosa di quello che abbiamo letto“. Temo di essere andato troppo oltre, di avere anche io preteso troppo.
Mi dice soltanto: “mi sembra che quest’uomo scriva molto bene…voglio pensarci“.
In pochi minuti impara i nove versi che continua a ripetere per tutta la sera a bassa voce, fra se e se.
Stamattina andando a scuola mi ha chiesto di spiegargli esattamente cosa è il fascismo.
L’ha ripubblicato su adoraincertabloge ha commentato:
Più di due anni fa. Al mio Adorato oggi come allora.
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