Ripercorrendo il mio tempo a ritroso mi sembra di ricordare che fosse la vigilia di Natale del 1976.
Il mio amico Vincenzo mi telefonò per comunicarmi con entusiasmo che a suo padre qualcuno aveva regalato tre libri.
Io ragazzino avido di qualunque cosa fosse carta stampata in una casa priva di libri (perfettamente speculare ai miei figli che non mostrano molto interesse vivendo in una casa piena di libri) fremevo per sapere cosa avremmo sicuramente condiviso nei mesi successivi.
Di uno ho perso memoria. Il secondo era Siddhartha e per discutere solo di questo sarebbero necessari alcuni post, ma non questo. Il terzo era un libro dalla sovracoperta nera sulla quale campeggiava una piuma azzurrina. Il libro era “Illusioni” di Richard Bach, famoso al tempo per il suo “Il Gabbiano Jonathan Livingstone”.
Avrei conosciuto così Richard Bach, entrando nel suo mondo che definirei “giovanilista” (se non fosse che a quel tempo il termine non era stato ancora coniato) e un po’ naif. Una specie di copia letteraria del mio amato John Denver che anni dopo mi avrebbe introdotto alle meraviglie del “Eco country”.
Diventò subito e per breve tempo, per me e per alcuni miei amici, il nostro scrittore di riferimento. Sarebbe stato sostituito alla testa della classifica da li a poco da ben altri scrittori che avrebbero provveduto a plasmare le nostre giovani menti.
Per qualche mese però non avremmo fatto altro che parlare di Richard e del suo amico Donald Shimoda: il primo e unico Messia riluttante della storia.
Il libro, insieme a tante altre cose accadute prima e in quel momento, produsse in me una vera crisi mentale e spirituale.
E mio padre, costretto ad essere sbrigativo dalle condizioni che la vita gli imponeva ed in fondo alquanto reazionario, decise di farmi parlare con un suo amico prete.
Quello, gentilissimo ed attento, mi ascoltò snocciolare le mie farneticazioni da tredicenne già abbastanza provato dalla vita. Non dimenticherò mai quella passeggiata in un qualche chiostro del palazzo arcivescovile di Palermo durante la quale gli dissi chiaramente che tutto quello che mi circondava, molto probabilmente, non era reale e che ero certo che nel momento in cui avessi finito di parlare con lui e svoltato l’angolo, lui, il giardino e tutto quello che vedevo in quel momento avrebbe semplicemente finito di esistere in quanto prodotti della mia immaginazione.
Avevo in mano con trenta anni d’anticipo la sceneggiatura di Matrix e non me ne sono reso conto.
Il paziente sacerdote sintetizzò efficacemente per mio padre il contenuto della chiacchierata dicendo che ero affetto da una forma abbastanza grave di relativismo cosmico ma che era niente rispetto a quello che sarebbe potuto accadere da li a qualche mese se avessi continuato a pensare troppo e a fare pessime letture. Per il resto invitava mio padre a pregare affinchè arrivassero presto significative pulsioni sessuali che sicuramente mi avrebbero messo al sicuro dalle mie fantasie psichedeliche.
Le pulsioni ritardarono un bel po’, le pessime letture continuarono e le previsioni del sacerdote si avverarono in pieno quando qualche mese dopo precipitai in una crisi metafisica che ciò che la precedeva era al confronto acqua fresca. Ma questa è un’altra storia.
Nonostante tutto Richard Bach e tutto quello che poi ho letto di lui (compreso il noiosissimo “Biplano” che però aveva la prefazione di Ray Bradburry che scoperta di recente ha fatto risalire le quotazioni di Bach) mi è rimasto nel cuore per tutta una vita.
Il pensiero di quegli atterraggi “miracolosi” in pochi metri di prato, il messia Donald che nel tentativo di essere ad ogni costo un “anticristo buono” provava a dimostrare le sue tesi nuotando nella terra invece di camminare sull’acqua, quella “sortes apostolorum” obbligata attraverso la quale l’autore ci costringeva a scoprire solo le frasi del “manuale del messia” che erano funzionali al suo racconto, sono rimasti tutti dentro di me e a questo punto direi che ci resteranno per sempre.
Ancora, per esempio, oggi quando voglio ingraziarmi una persona con i miei modi maldestri e non ci riesco mi chiedo sempre “perché non apprezza il mio pane cotto nel tegame”.
Ancora oggi, quando la vita mi mette davanti alla perdita, alla separazione, all’allontanamento di una persona cara, ripeto a me stesso, come fosse un mantra, la frase che Donald dice a Richard per consolarlo della sua prossima scomparsa: “non bisogna lasciarsi sgomentare dagli addii perché un addio è necessario per ricontrarsi. E ricontrarsi dopo momenti ed esistenze è certo per coloro che sono amici”.