Nei giorni scorsi ho percorso la Via dell’Assenza.

E’ una via strana, molto lunga, piena di curve, di deviazioni.

Comincia che è una trazzera, una di quelle che nessuno è riuscito ad asfaltare mai.

Un po’ di cemento all’inizio, un po’ di selciato dopo e poi improvvisamente scompare dietro una chiudenda per gli animali.

Il fatto è che io la conosco. La percorre il mio naso prima che i miei occhi.

Una mezzeria fatta di profumo di nipitella e neve di pioppi mi porta senza esitazione a superare un cancello che non esiste più, una porta che non esiste più.

Lungo la Via dell’Assenza si trovano mobili pieni di pacchi di pasta smezzati, batterie da cucina in smalto rosso, letti che hanno ancora il copriletto.

L’arco con le frecce di una persona che per un poco ha condiviso con noi quella strada, alberi cresciuti fino a produrre ghiande, un melo carico ma con le mele troppo alte perché possano essere raccolte.

Un cotogno morto che ha rigettato dal colletto, buchi sui muri, statuine cadute sui comodini.

La Via dell’Assenza a quel punto fa una deviazione lunghissima e dopo un pomeriggio trascorso impegnati in un racconto di donne antiche che non sapevano quanto fossero moderne, porta lungo il fiume. Diventa sentiero sottile fiancheggiato da sommacchi, illuminato dal volo elettrico dei Martin pescatore.

Il sentiero si congiunge alla vecchia strada ferrata  e lascia le tredici luci a sinistra per ritrovare la stazione. Lì saluta fantasmi, considera impossibili possibilità, racconta persino una storia già tante volte raccontanta fatta di scene antiche e di rimembranze future.

Via dell’Assenza finisce nel borgo, poco più avanti. In un’altra casa di letti ancora fatti, di foto di gente che non c’è più, di panieri sfondati e rondini che entrano ed escono dai vetri rotti.

Via dell’Assenza è la via che congiunge due case, due tempi, il mio cuore e la mia mente passando attraverso la mia pancia.

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