Quando certe cose tornano, dopo quasi 50 anni, forse vale la pena scriverle e condividerle.

Figlio di insegnanti considero la scuola pubblica uno dei miei valori non negoziabili.

Figlio di insegnanti e frequentatore di tutte le scuole più improbabili della già improbabile città di Palermo (scuole nelle quali più che lo spirito di adattamento era necessario lo spirito di sopravvivenza) ho imparato negli anni a riconoscere ed apprezzare tutti gli aspetti positivi della scuola pubblica, ma allo stesso tempo ad enfatizzarne quelli negativi.

Si tratta, per esempio, di uno di quei sistemi che in teoria risultano essere inattaccabili ed indiscutibili, fino a quando non atterrano sul fattore umano che rende tutto molto meno probabile e infinitamemnte più aleatorio.

In sostanza le cose, per quanto belle nella loro definizione ideale, finiscono sempre per essere realizzate dagli uomini e li possono trovare la loro esaltazione (penso per esempio alla maggior parte delle maestre che fino a questo momento i miei figli hanno avuto la fortuna di incontrare lungo il loro percorso scolastico) o la loro negazione.

A questo punto la storia. Io ho 4 anni. Scuola pubblica di Brancaccio (quartiere di Palermo assai rinomato per situazioni non proprio virtuose). Asilo con Maestra M., a quel tempo definita “Signorina” (come dire “zitella senza speranze”) perennemente impegnata nella preparazione di un corredo che probabilmente, nel migliore stile penelopesco, cuciva di giorno e scuciva di notte.

L’attività in questione si svolgeva naturalmente anche in classe, ed era attività quasi esclusiva visto che noi bambini passavamo la quasi totalità del tempo impegnati nel massimo della sua proposta pedagogica: il gioco del silenzio.

Il gioco del silenzio funzionava più o meno così: tutti zitti, seduti, e con le mani dietro la schiena (non sia mai detto che sviluppassimo una qualche abilità manuale!).

Si capisce facilmente come di quel tempo io non conservi un buon ricordo. Io, d’altra parte, avevo 4 anni ma già dentro di me ero animato da un personale senso della giustizia che mi faceva intuire come quel trattamento da parte della maestra non fosse corretto ne rispettoso nei confronti di noi suoi “imberbi utenti”.

Già da allora però preferivo la resistenza civile alla lotta armata e quindi, per dirla con De Andrè “le contromisure fino a quel punto/si limitavano all’invettiva”.

Nel mio caso poi l’invettiva era di tipo digitale e non verbale, in una parola: facevo le corna con le mani ben protette dalla schiena.

Molte cose in quelle ore avrei capito su come si fa una rivoluzione, e la prima fu che, per quanto infantile sia una rivoluzione, c’è sempre un “infamone” che si mette nel mezzo.

E infatti uno dei miei compagni “se la cantò” con la Maestra M. raccontandole ciò che facevo nel segreto del suo gioco del silenzio.

Maestra M. allora mi convocò al suo cospetto e in presenza di tutti i miei compagni mi impartì una di quelle umilianti ramanzine che fanno a pezzettini qualunque bambino.

Se non fosse però che io ero a quel punto veramente arrabbiato e quando la Maestra M. mi fece capire di avere finito, io pronunciai una di quelle frasi che sarebbero rimaste per sempre nella mitologia della mia famiglia: “io domani faccio venire mio padre e la faccio INGALERARE”. Al netto del problema linguistico voglio veramente che il lettore apprezzi il potere deflagrante e rivoluzionario di un’affermazione del genere.

La Maestra M. restò senza parole (e spero però che almeno  abbia riso dentro di se) e senza aggiungere altro mi mandò al mio posto.

Io mi pentii quasi subito dell’atto incendiario da poco consumato: e chi ce la portava questa notizia a casa?

E infatti a casa non dissi assolutamente nulla di quanto accaduto e per di più, l’indomani mattina, mi inventai un terribile mal di pancia nel tentativo di evitare un nuovo confronto con la Maestra M.

La bugia non solo non produsse alcuna forma di compassione nei miei genitori ma diede vita ad un tragico effetto collaterale: mio padre che fino a quel momento non mi aveva mai accompagnato a scuola, quel giorno decise che per accertarsi circa le mie condizioni di salute mi avrebbe accompagnato personalmente, depositandomi nelle capaci ed industriose mani della Maestra M.

Non vi dico la faccia della Maestra M. quando vide arrivare il suo alunno rivoluzionario in compagnia del padre incarceratore. Esplose in un: “allora lo hai portato veramente!!!”. Naturalmente mio padre cadeva dalle nuvole ed una volta informato dell’accaduto io finii per prenderne da tutte le parti (in senso figurato e materiale), la mia prima sommossa fu soffocata nel sangue (in senso figurato e materiale), ma io imparai tanto sull’organizzazione di un moto vincente: prima di tutto che una rivoluzione non si improvvisa.

7 pensieri su “La rivoluzione non si improvvisa

  1. Che bella storia, da rivoluzionario in erba! 50 anni fa avevo quasi 4 anni pure io… andavo alla scuola materna montessoriana e la mia amata maestra si chiamava Paola. Anni belli di giochi, parole, disegni… non potevo sapere che invece alle elementari avrei incontrato una maestra di pura formazione fascista che avrei odiato con tutte le mie forze. La maestra Paola ogni tanto la vedo ancora… e lei si ricorda di me! nella scuola pubblica si fanno anche di questi incontri per fortuna…

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