Il territorio può essere letto in molti modi. Ognuno di noi possiede molteplici chiavi di interpretazione prodotte dalla propria esperienza, arruginite dai preconcetti o ben oleate dall’amore per l’universo.

Il territorio può essere letto in molti modi e ho trascorso una settimana a rileggere un luogo che negli anni ho avuto la fortuna di rileggere tante volte, i cui capitoli mi sono noti, da quelli più famosi a quelli più sconosciuti.

Sdraiato davanti al golfo di Custonaci ho passato ore a sfogliare questo luogo che amo sommamente, per il quale ho combattuto e che mi è caro come pochi.

Mi sono diverto a fare un gioco. I miei bambini ne hanno una versione molto bella e il gioco generalmente si chiama “indovina chi?”. Ci si mette davanti una grande quantità di personaggi che hanno fra di loro caratteristiche comuni e poi a turno si cominciano ad eliminare sulla base di una caratteristica specifica (il possesso degli occhiali, o di un cappello, il fatto che si tratti di uomini o di donne, ecc.) fino ad arrivare a l’unica soluzione possibile.

Anch’io ho giocato un gioco simile. Ho pensato a coloro che di questo luogo leggono il capitolo del mare, le calette, le poche spiagge che interrompono la continuità rocciosa della costa. Tutte le figure erano ancora davanti ai miei occhi. Quella è la chiave di lettura più semplice, più immediata.

Poi ho introdotto la variabile dei sentieri. Il sentiero che segue la costa. E il numero delle persone che interpretano quel luogo secondo questa chiave già si riduceva. Il sentiero che gira attorno al monte. Ancora meno. Quello che sale sulla cima del Cofano. Sempre meno.

A quel punto ho aperto il capitolo segreto delle Gole del Monte Palatimone. Quella fessura nella roccia che dalla piana di Purgatorio scende fino al mare. E li il numero dei lettori era veramente minimo e per lo più ognuno era dotato di un volto a me noto perché li conosco uno ad uno e con loro ho letto quelle gole con l’avidità di colui al quale il mondo ha donato un altro mondo.

E poi ho compiuto un azzardo. Ho introdotto l’ultimo parametro, il più arcano, il più esoterico fra tutti: armare da primo il salto da 46 metri. Armarlo in un pomeriggio di un tempo quasi scomparso. Armarlo senza sapere se le corde toccano il fondo, senza sapere se si sono aggrovigliate su un ramo o su una sporgenza di roccia. E cominciare a scende, i piedi puntati in avanti, le gambe a V a bilanciare il corpo. E non sapere, e al tempo stesso sapere tutto, e vedere tutto. Sotto il bosco come un tappeto di muschio, e il mare incorniciato dalle pareti calcaree, e l’aria calda che giunge dal fondo del salto e che ti asciuga il sudore ed i pensieri.

In quanti amici, in quanti conserviamo questo ricordo? In quanti abbiamo, con meraviglia e  timore, staccato le due pagine di roccia scoprendo che al loro interno c’era ancora una capitolo di quella storia racconatta dall’universo e che ancora nessuno aveva scoperto? Quanti di voi ne conservano ancora memoria?

Io a volte, la notte, lo sogno. Sogno il timore dell’abisso, la cometa fra le pareti della gola in quella sera di febbraio, lo smarrimento del bosco, e poi le vostre risate fra le onde gelate e quel tempo che sembrava non volere finire.

Nei giorni scorsi ho letto ancora una volta quel luogo, come un tempo facevo con i libri, e mi sono soffermato sul nostro capitolo segreto. Questo, niente altro, volevo dirvi.

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