Sono stato scout anch’io. E si sa: una volta scout si resta scout per sempre. Lo sono stato per un breve periodo cominciato subito dopo la scomparsa di mia madre e conclusosi malamente per umana stupidaggine che ancora a distanza di 40 anni resta per me l’unico torto, fra quelli subiti in vita mia, che non sono riuscito a perdonare.

Fra questi due eventi dolorosi però si concentrano quattro anni che hanno rappresentato per me uno dei periodi più felici della mia vita, tesoro di esperienze, fucina di amicizie, fonte di “valori di inestimabile valore”.

Esperienze che hanno di sicuro alimentato in me una passione per la natura che era già figlia della mia vita da bambino sulle montagne della Sicilia, amicizie che ancora oggi costituiscono lo zoccolo duro di quel piccolo gruppo di amici che rappresentano il “patrimonio umano” che sono riuscito a mettere assieme in questi anni, valori che continuo a portarmi dietro e quotidianamente compongono quel caleidoscopio attraverso il quale guardo e interpreto l’universo.

La mia storia di scout è una storia di storie. Forse per questo fino ad adesso ho evitato di aprire “il vaso”, nel timore che una volta aperto sarà poi difficile chiuderlo.

Ma sarà per tutto questo parlare di pioggia, tutto questo scrivere di bisogni, che mi è tornata in mente una storia che adesso a ripensarla mi sembra bella, profumata e serena, e che voglio condividere.

I miei ricordi non sono più precisi. Qualche mio amico di quel tempo, leggendo magari questo post, potrà intervenire per correggerne le imprecisioni e gli eventuali “paradossi”.

Avevo da poco 14 anni ed ero diventato quell’estate il capo della squadriglia “Falchi”. Succedevo a Nicola (il mio mitico capo squadriglia) con il quale all’ultimo campo estivo avevo condiviso un “raid” di due giorni fra le montagne dell’ennese. Due giorni che mi avevano profondamente segnato e durante i quali si era consumato, senza troppe parole, il nostro rito del  passaggio di consegne (ma come dice Michael Ende ne “La Storia Infinita”…quella è tutta un’altra storia).

La storia che voglio raccontare risale invece a qualche mese dopo. Già in inverno, forse la prima escursione con pernottamento con me nel ruolo di capo squadriglia e con affianco il “mio vice” (con il quale ho condiviso molte altre storie, con il quale condivido anche il nome e al quale dedico questa storia).

Il luogo dell’escursione è un classico dello scoutismo siciliano: Bosco della Ficuzza, il complesso boscato più grande in prossimità della città di Palermo.

Fa freddo, piove da giorni. Credo che in zona oltre alla mia ci siano almeno un paio di altre squadriglie. Di sicuro c’è la squadriglia “Cobra” del mio amico Vincenzo che vivrà un’altra esperienza speciale destinata a diventare anch’essa patrimonio comune attraverso la condivisione che scaturisce dal racconto.

Ma non c’è modo di comunicare fra noi. Al tempo andava forte la comunicazione tramite bandierine e alfabeto morse da concordare giorni prima e da attuare segnalando fra la cima di una montagna e l’altra. I risultati erano sempre esilaranti e talmente approssimativi da convincerci in più occasioni che era meglio mandare un messaggero per accertarsi che l’assurdità ricevuta fosse ciò che veramente dall’altra parte avevano avuto intenzione di trasmettere.

Siamo dotati di un particolare tipo di tenda che per chi è stato scout rappresenta una specie di mito, un vero monumento all’essenzialità e all’amore per la vita spartana: l’indimenticabile “Mottarone” della premiata Ditta Moretti.

Secondo il vulgo scoutistico del “Mottarone” si diceva: “ci entriamo in 8 con le brandine e in 12 senza“. Una specie di tendone da circo monotelo e con il fondo staccato dal resto, i cui picchetti da soli pesavano quanto un’intera tenda 8 posti dei giorni nostri.

E questa del fondo staccato dal resto della tenda era sicuramente una delle caratteristiche più sinistre. Il fondo si componeva di teli a se stanti, spesso roba di recupero strausata e maltrattata, che nel momento in cui si tirava su la tenda, bisognava porre in qualche modo in continuità con il resto della struttura per evitare fastidiose intrusioni notturne di animali, insetti, spifferi, acqua.

Postulato indimostrabile e inattuabile sul quale per il resto poggiava tutta la teoria secondo la quale il Mottarone fosse una tenda e non piuttosto un pretesto per farci dormire all’addiaccio.

Arriviamo su una collina davanti al Lago Scanzano che comincia già ad imbrunire. Io di anni 14 e il mio omonimo e coetaneo vice con sei “bambini” al seguito. E’ infatti questa la percezione che avevamo a quel tempo. Noi eravamo “quelli grandi” e ci portavamo in giro per i monti “quelli piccoli” (di età variabile fa gli 11 e i 13 anni) nei confronti dei quali ci sentivamo addosso una responsabilità che dentro di me oggi non suona molto diversamente da quella che avverto nei confronti dei miei figli.

Non so come facessero i genitori e i capi adulti di allora, nel tempo in cui non esistevano né i cellulari né i gps, a lasciarci andare così in giro per la Sicilia, a riconoscerci tanta responsabilità e altrettanta maturità per gestirla, a dormire sonni sereni mentre noi affrontavamo una delle nostre avventure.

Ma torniamo a quella sera. Dobbiamo scegliere il posto in cui piantare la tenda. Il tempo stringe. Fra poco non saremo più in grado di vedere ad un palmo dal naso. Il terreno sotto i nostri piedi è una spugna intrisa d’acqua. Continua a piovigginare e comincia a fare veramente freddo.

Facciamo un primo tentativo nella zona più bassa della collina, quella più prossima alla strada e al lago. Siamo talmente stanchi e preoccupati da fare l’errore di perdere del tempo prezioso montando la tenda prima di mettere il fondo. Quando oramai la tenda è piantata e stendiamo i teli a terra è sufficiente poggiarvi la mano perché l’acqua li attraversi completamente creando enormi pozze dentro la tenda.

Smontiamo tutto alla velocità della luce e ci spostiamo più in alto. La luce oramai scarseggia e fra i più piccoli comincia a serpeggiare una certa preoccupazione. Oramai procediamo per “saggi”. Ognuno di noi va in giro con uno dei teli e prova a poggiarli per terra. Il risultato è sempre lo stesso: appena si esercita un po’ di pressione risale una gran quantità di acqua.  

Improvvisamente entriamo in una zona nuova del bosco. Non percepisco la variazione con la vista, considerato che oramai è quasi buio. Credo che le mie orecchie abbiamo avvertito una specie di vibrazione nuova e soprattutto il mio naso un profumo che non c’era prima.

Siamo entrati senza rendercene conto in una zona del bosco all’interno della quale vivono delle sughere centenarie. La sera si è rapidamente trasformata in notte mentre noi cercavamo spasmodicamente un posto asciutto sul quale mettere la nostra tenda. Sembra proprio che l’unica possibilità sia quella di piantarla dove capita preparandoci ad affrontare una notte difficile. Serpeggia lo scoraggiamento. Quando improvvisamente si materializza davanti a me la sagoma del mio Vice Francesco che avevo perso di vista da un po’. Ha in mano degli oggetti molto grandi che non riesco li per li a riconoscere.

Improvvisamente capisco. Siamo capitati al tempo della decortica della sughereta. Francesco andando in giro, nella disperata ricerca di un posto asciutto, si è imbattuto in uno dei mucchi che i decorticatori hanno cominciato ad accumulare.

Sono mezzi tronchi di sughero, meravigliose culle di profumata corteccia.

Montiamo nuovamente e per l’ultima volta la tenda. Stanotte ognuno dormirà come in un nido personale: morbido, profumato, perfettamente isolato dall’umidità e dal freddo.

Francesco viene quasi portato in trionfo da tutti noi. Lui ragazzino appena quattordicenne era riuscito a vedere ciò che la nostra preoccupazione non ci aveva permesso di cogliere: che la natura è generosa, che provvede, che sa rispondere prontamente ai nostri bisogni a patto che questi siano reali, veri, sostenibili, a patto che ognuno di noi ristrutturi e ridefinisca le proprie finestre della percezione affinché il pianeta ci appaia per quello che è, il luogo nel quale possiamo trovare tutto ciò che ci serve per vivere in equilibrio con le altre creature, il nostro nido, la nostra casa.

La notte trascorse serena come poche notti in tutta la mia vita. Ancora oggi, dopo 40 anni, quando auguro ai miei bambini di fare “sogni d’oro”, dentro di me, segretamente gli auguro in realtà “sogni di sughero”. 

27 pensieri su “Sogni di sughero

  1. Anche tu scout?
    Mai lo avrei creduto, Francè…
    GESUUUUUUUUUUUU’ ma chi ti condusse fuori dal ghetto creato da ( mi son andata a cercare il nome esatto) Sir Robert Baden-Powell che gareggia con CL ???

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      1. ahahahah
        Ma ti sei dimenticato che anche il mio secondo figlio (gioia e dolore) , il marito della leghista su, è scout??
        E pure lei…
        Parli di nottole ad Atene e che nottole!!!

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  2. Amo molto il sughero…sai che nel ( penso al moderno) presepe napoletano ha un suo bel ruolo?
    Chiederò a Franz: se non lo sai lui!
    « “Ma a te… te piace ‘o presepe??” “No. Nun me piace. Voglio ‘a zuppa ‘e latte!” »
    (Luca Cupiello, rivolgendosi al figlio Tommasino che non vuole alzarsi dal letto la mattina della vigilia di Natale, in “Natale in casa Cupiello”, di Eduardo de Filippo)

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      1. Straordinario..
        Sapevo che da qualche parte in Sicilia avevate ettari di sughero..
        Ieri sera, non avendo di meglio da vedere, mi son goduta la preparazione dei cannoli.
        C’è un canale ( io lo devo guardare SOLO a stomaco pieno) , ossia “Alice” votato al cibo.
        Io son molto critica con questi format ( pornografia allo stato puro e con tanta gente che non ha da mangiare son assolutamente di pessimo gusto), ma ammetto che ora so a grandi linee come si crea il mitico dolce made in Trinacria.

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      1. Il puzzle dei propri ricordi…quando si deve capire quali sono i nostri ricordi veri, quelli riportatici da altri e quelli che si confondono con i sogni vissuti o pensati: una pulizia della memoria.
        Buon pomeriggio.

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          1. A me è successo due volte, finora.
            La prima volta quando decisi di sposarmi, andai a cercare la casa in cui ero nata e dalla quale ero stata portata via all’età di tre anni, poi tornai nell’orfanotrofio nel quale avevo vissuto infanzia e adolescenza. Ciò mi servì a ridimensionare i fantasmi del passato e mi confermò che ero cresciuta e maturata.
            La seconda volta fu dopo la morte di mia madre, che aveva lasciato un vuoto, purtroppo ancora oggi incolmabile e che sto cercando di rielaborare, per comprenderla e riuscire ad accettare alcuni suoi comportamenti nei miei riguardi.

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                  1. Infatti, più si va avanti nella vita, il bagaglio aumenta: ricordi, esperienze, vicissitudini varie ci arricchiscono e, quando ci sembra di aver imparato qualcosa, ci accorgiamo che il percorso è quasi finito e allora, si posa il bagaglio a terra, così non pesa più, e si rimane a contemplare ciò che la vita ancora ci regala.

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