Avevo già anticipato che avrei probabilmente pubblicato questa riflessione nel mio post di qualche giorno fa dal titolo “Quantificare l’inquantificabile“.

Adesso vorrei aggiungere che la offro a tutti coloro che vorranno leggerla e che “frequentano” questo blog ma soprattutto ai “soci e amici” della mia associazione, nella speranza che essa possa essere il germe di una riflessione più allargata che ci porti, alla viglia del nostro Dodicesimo Meeting Nazionale, a discutere circa la possibilità di sviluppare nuove idee e consapevolezze nel campo della Cooperazione.

Non riesco invece ad immaginare come questa mia riflessione sulla cooperazione possa aprirsi anche al contributo delle grandi ONG italiane (ammesso che a qualcuno di loro possa fregare niente). Nei confronti di queste realtà nutro serissimi preconcetti (alcuni di questi molto strutturati e quindi meno “preconcettuali”) che mi portano ad avere una serie di difficoltà nel percepirle come delle entità “reali e contemporanee”.

Non è questo il momento per proporre le mie considerazioni circa l’irrealtà e l’anacronismo delle ONG italiane, di sicuro però voglio fare presenti quali sono i due punti principali che mi inducono a pensare che una riflessione come quella che avvierò fra poco non può in alcun modo riguardarle.

In primo luogo io credo che le ONG italiane (la reiterazione “italiane” non è casuale) soffrono di un problema che non ha niente a che fare con l’etica, e nemmeno con questioni di metodo, né con problematiche filosofiche; le ONG italiane scontano da sempre un difetto logico che io considero inaccettabile e imperdonabile.

ONG, lo sanno tutti, è l’acronimo di Organizzazione Non Governativa e il senso è nelle parole. Bene in Italia (e qui si spiega la reiterazione), e per quanto ne so solo in Italia, per essere Organizzazione Non Governativa bisogna essere riconosciuti ed accreditati dal Ministero degli Affari Esteri (adesso anche della Cooperazione Internazionale) e cioè dal Governo. Lascio ai lettori il piacere di rilevare l’evidente illogicità e quale, di conseguenza, risulti essere l’autonomia di scelte e di intervento delle Organizzazioni NON Governative italiane. 

L’altro peccato originale dal quale le ONG italiane non hanno mai preso ufficialmente le distanze è invece insito nel nome che danno all’attività da esse svolta (e che adesso però tende a virare su altra terminologia senza però che queste né il loro maggiore sponsor – il Ministero! – abbiano fatto in proposito alcuna autocritica) e cioè: Cooperazione allo Sviluppo. Inutile dire che il principio sotteso a questa “etichetta” si può tutto sintetizzare e semplificare (forse eccessivamente ma ogni tanto serve) nella seguente frase: “noi siamo sviluppati, voi siete sottosviluppati, adesso veniamo da voi e con i nostri potenti mezzi e a fronte dei nostri ineguagliabili valori vi facciamo sviluppare bene come siamo sviluppati noi“. Mi rendo conto che le mie premesse di oggi mi consentono il lusso di non dovermi dilungare troppo perché sono assolutamente evidenti e comprensibili.

Nonostante quindi ritenga che le ONG italiane siano “strutturalmente impreparate” ad aprirsi alla discussione per come intendo proporla nelle righe che verranno, credo comunque che esse al proprio interno annoverino molte persone che illogicità ed incongruenze come quelle sopra elencate le rilevino e problemi su come attivare nuove forme di cooperazione se li pongano. E quindi se non con le associazioni almeno con le persone che ne fanno parte mi piacerebbe parlare anche attraverso questo post.

Di sicuro vorrei potere condividere questa riflessione con tutti coloro che sono impegnati in associazioni piccole e leggere, con tutti quelli che fanno cooperazione “fuori dalla cooperazione”, con le persone che cominciano a prefigurare nuove forme di cooperazione e in particolare con quelli che ritengano che la “Cooperazione di Comunità” possa essere una di queste forme.

La riflessione che voglio proporre è veramente propedeutica al nostro agire nel mondo della cooperazione e la intitolerei come “Il problema della valigia del cooperante“.

Con quale valigia, con quale bagaglio il cooperante e le associazioni che si occupano di cooperazione si preparano ad affrontare il viaggio che li porterà in tanti luoghi del nostro pianeta ad incontrare altre persone ed altre comunità?

Io credo che oggi il bagaglio associativo sia essenzialmente costituito da due cose: le finalità statutarie o ragioni sociali e, per quelle che hanno voluto aggiungere un pezzo, fare un passo in più, quello che molti chiamano: il manifesto dei valori.

Entrambi questi documenti contribuiscono a dichiarare con chiarezza all’interno (ai soci dell’associazione) e all’esterno ( a tutti coloro che con l’associazione entreranno in relazione) quali sono i valori di riferimento dell’associazione, i suoi intenti, le sue linee di azione, i suoi obiettivi.

Quando ciò poi si esprime nella relazione con “l’altro”, che nel nostro caso è la persona o la comunità in uno dei paesi nei quali interveniamo, produce immediatamente (e a cascata poi attraverso il realizzarsi in azioni di questi presupposti) una percezione precisa del nostro essere associazione che mi sento di descrivere con le parole che seguono: “una realtà comunitaria (ma questo concetto da solo meriterebbe una riflessione a se che magari proporrò in seguito) che si predispone all’incontro ricca di una valigia piena di valori e pronta a soddisfare i tanti bisogni di persone e comunità che vivono in quei paesi“.

Se così stanno le cose temo che anche coloro che hanno preso consapevolmente le distanze dalla “cooperazione allo sviluppo” tanto distanti da essa non sono ancora arrivati.

L’equazione che ne viene fuori purtroppo è evidente e paradigmatica: “l’incontro avviene fra persone ricche di valori e prive di bisogni che si muovono verso (nel senso topografico del termine) persone ricche di bisogni e prive di valori o, nel migliore dei casi, i cui valori sono nascosti dietro uno schermo fatto  di bisogni preponderanti“.

Ancora una volta questa considerazione pone la relazione in termini di assoluto squilibrio dando ad uno degli elementi della relazione una preminenza che da valoriale diventa inevitabilmente morale.

Questa chiave di lettura della cooperazione, per quanto superi di fatto quella fornita dalla cooperazione allo sviluppo, costituisce ancora un’interpretazione immatura e il terreno fertile su cui far crescere nuove forme di sfruttamento post-coloniale che con una forzatura tipicamente giornalistica (ma che mi sta succedendo???) definirei “Needs grabbing“.

Io credo infatti che se vogliamo superare anche questa fase e approdare ad una concezione più matura della cooperazione dobbiamo deciderci a riempire la nostra valigia del cooperante non con i nostri valori, non con le nostre intenzione, strategie e progetti, ma bensì con i nostri BISOGNI.

Secondo me è solo così che si accede allo spazio neutro di negozziazione: “nudi e con i bisogni ben in vista“.

Bisogni associativi/comunitari da potere condividere immediatamente (i bisogni globali già tragicamente evidenti, i bisogni che prima di essere nostri sono del nostro pianeta e del suo ambiente naturale, i bisogni delle generazioni future, ecc.), bisogni associativi/comunitari da definire meglio assieme e dei quali siamo solo portatori in termini di embrioni indistinti, i bisogni associativi/comunitari specifici, quelli che appartengono in maniera molto caratteristica alle diverse realtà locali ma che comunque vale la pena condividere, discutere e affrontare assieme perché portatori di modelli, buone pratiche, soluzioni innovative, ed infine bisogni personali, sicuramente i più difficili da definire perché in primo luogo difficili da comprendere per noi stessi, difficili da “confessare” a noi stessi.

Solo dichiarando chiaramente e prioritariamente quali sono i nostri bisogni associativi e personali che ci muovono potremo abitare lo spazio neutro di negozziazione in maniera onesta, responsabile ed equilibrata. Solo così sarà evidente a tutti che la cooperazione è un campo nel quale non c’è qualcuno che forte dei propri valori, tutti buoni e tutti non negoziabili, aiuta qualcuno che valori non è ha e che è in disperata condizione di bisogno, ma è invece il luogo dove ci si presenta “ricchi dei propri bisogni”, con un grande bagaglio nel quale tutti i nostri bisogni siano quanto più possibile dichiarati, messi in evidenza, riconosciuti (e li dove non è possibile, perché è veramente difficile avere perfetta consapevolezza dei propri bisogni, almeno con l’atteggiamento di chi sa che di bisogni ne ha e molti anche se non sa quali sono) e con un piccolissimo zainetto con all’interno quei pochi valori che ritiene che non possano essere negoziati.

E’ solo dopo avere riempito la nostra valigia del cooperante con i bisogni che ci muovono e motivano, che ci preoccuperemo di riporre all’interno dello zainetto i pochi valori che riteniamo possano avere accesso all’interno dello spazio neutro di negozziazione.

Invito quindi tutti coloro che lavorano in questo campo, a partire dalla mia associazione, a mettere un attimo da parte i loro “Manifesti dei Valori”, le loro “ragioni sociali” e a mettere mano ad un nuovo, più consapevole ed onesto “Manifesto dei Bisogni“. 

Se così non faremo temo che con le nostre azioni non solo riperpetueremo la nostra vocazione predatoria nei confronti di queste persone, di queste comunità, di questi luoghi, ma per di più invece di continuare nello sfruttamento su larga scala e in maniera spudorata (come hanno fatto e fanno governi e multinazionali) inaugureremo la nuova stagione della soddisfazione di nostri bisogni spesso “sdruccioli” e sempre non dichiarati con la scusa del soddisfacimento dei loro bisogni.

Spero quindi che a fronte di un’assunzione di responsabilità del genere potremo mettere fine ad anni in cui abbiamo dovuto vedere troppe “Sante Associazioni” che grazie al “sacrificio” loro e dei propri soci intervengono in luoghi del mondo “difficili e disperati” per porre fine alle sofferenze di tanta “brava gente”, ad anni in cui abbiamo dovuto vedere le innumerevoli foto di “Volontari Eroi” che con “sprezzo del pericolo” e a “cavallo dei loro fedeli fuori strada” si recano in villaggi sperduti per aprire le loro “valige del cooperante” dalle quali venivano fuori “penne, palloncini, caramelle e progetti fuori contesto” per la delizia di “bambini africani” da prendere in braccio a grappolo e con i quali poi si faranno fotografare a “favore di facebook”.

Prima di chiudere però vorrei fugare un dubbio. Con queste mie parole non intendo aderire ad un movimento già abbastanza ampio che proprio a fronte di considerazioni simili ritiene che la cooperazione sia inutile o peggio dannosa. Voglio invece immaginare che proprio a fronte della considerazione condivisa e dichiarata che “tutti siamo portatori di bisogni e che sono i bisogni (nostri prima che altrui) a motivare le nostre azioni” si possa immaginare una nuova forma di cooperazione che sui bisogni di tutti i partecipanti al processo cooperativo a sulla loro soluzione, a fronte di un rapporto equilibrato fra le parti, ponga la propria attenzione. 

Mi piacerebbe infine che nei prossimi giorni avvenisse una specie di piccolo miracolo. Quando il prossimo di noi munito della sua “valigia del cooperante” si appresterà a superare il controllo doganale in un aeroporto del Sud America, o dell’Africa, o dell’Asia possa sentire la guardia di frontiera che lo apostrofa: “Any needs to declare Sir?”   

 

 

22 pensieri su “La valigia del cooperante

  1. caro francesco,
    come sai frequento poco il wed e uso pochissimo il computer, anche per motivi fisici di salute. ma le tue provocazioni sono più forti e ti leggo spesso, ed ora sono spinto a rispondere brevemente. sono da poco rientrato da quaranta giorni di srilanka dove Cecilia mia figlia che conosci bene, sta partecipando da otto mesi ad un progetto di servizio civile. non ti sorprenderà sapere che è entrata in rotta di collisione subito con tutto il sistema e in particolare il suo “capo Progetto”, per tutta una serie di cose la cui origine sta tutta dentro la tua riflessione. abbiamo ragionato molto in questi quaranta giorni, con Cecilia di queste cose e, nel vedere certe logiche e certe persone che le portano avanti con un ego occidentale pericolosissimo e dannoso, impersonando al meglio tutte le cose che scrivi, viene la tentazione (devo dire altre volte e in altre esperienze già ricacciata) di dire: cari “sviluppati” statevene a casa vostra che è meglio, almeno non andate a rubare anche le energie psichiche e morali di questa gente. Come disse il presidente dell’Uganda, in una conferenza mondiale “lasciate stare i poveri dell’Africa”. ma poi come dici tu ci sono tante persone volenterose e genuine che possono e vogliono fare il loro meglio. ed allora è importantissimo riflettere su cosa sia questo meglio. sono d’accordo con te su tutte le considerazioni e riflessioni. si c’è molto da ragionare, educare, cambiare nel settore della cooperazione. quello che cerco di fare come atteggiamento nel mio stare dentro la cooperazione e soprattutto nel rapporto con le persone in generale e in particolare dei paesi “altri” che incontro è applicare una sana “antropologia reciproca” (non chiedermi cosa significhi!) e per fare questo cerco di spogliarmi di tutto e di pormi aperto davanti alle persone e situazioni molto diverse che incontro. nel fare questo ho scoperto che, guarda caso, spoglia che ti spoglia, ciò che rimane da portare in questo rapporto sono soltanto i miei bisogni, da donare ai bisogni dell’altro. non è facile quello che stiamo facendo e merita molta riflessione attenzione e lavoro e moltissimo cambiamento. sono al tuo fianco, come molte altre persone, andiamo serenamente avanti, Grazie

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    1. Caro Gianni inutile dire che il tuo contributo è tanto inatteso quanto gradito. Per quanto riguarda cecilia dico che dovevano aspettarcelo: aveva già fatto il suo percorso di maturazione prima e da donna sensibile quale è non poteva che entrare in rotta di collisione.
      Quanto a noi sono felice di sentire che ancora una volta cavalchiamo la stessa onda, un po’ più vecchi e un po’ più stanchi magari, ma sempre convinti che ci sia ancora tempo per fare qualche cosa che dall’innovazione leggera tragga la propria forza. C’è ancora tempo per camminare fianco a fianco.

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  2. Molto cinicamente direi che spesso si aiuta, più che per aiutare gli altri, per aiutare se stessi. Molti sentono, infatti, il bisogno di essere utili agli altri solo per sentire di avere uno scopo nella vita, per gratificarsi o, come dici tu, per mostrare foto sui social, mentre il vero sentimento di solidarietà, di pietà, di altruismo credo sia veramente di pochi.

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      1. forse hai ragione, ma è meglio pensare che non sia così. Se incominciamo a pensare che non esista al mondo nemmeno una sola anima pura siamo perduti!

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  3. Molto interessante questa discussione, lavoro da anni un po’ a fianco della cooperazione come insegnante e mi ritrovo molto nei nidi che affrontate.
    l’idea di esplicitare i bisogni di tutti e condividere in modo paritario le esigenze reciproche é molto interessante, ammesso che si possa riuscire, da parte di noi privilegiati occidentali, peró credo bisogna cercare di percorrere quella strada per garantire il rispetto di tutti.

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    1. mi fa davvero piacere ricevere questo commento da una “quasi addetta ai lavori”…io credo che veramente sia venuto il momento che la cooperazione internazionale si interroghi seriamenteed onestamente su quest questioni. Inutile dire che mi farebbe molto piacere avere ulteriori informazioni sulla tua esprienza in questo campo.

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      1. Sto collaborando con CISV a scuola da anni su tematiche di intecultura, riflessioni su diversità, economie diverse…
        da anni abbiamo organizzato stage in villaggi poveri vicino a Marrakech.
        due anni fa sono stata in Benin con scambio insegnanti e ho avuto modo di cogliere alcuni nodi nell’ambito della cooperazione.

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