Recupero questo racconto per mio figlio Zaccheo. E’ un racconto doloroso e naturalmente io non posso che augurare al mio ragazzo che nemmeno una goccia di cotanto dolore lo tocchi nel tempo che viene.

Questo racconto però lo riguarda perché prima che nascesse, quando ancora con Veronica ci chiedevamo se dargli questo nome, il nome di un personaggio del Vangelo che ci piaceva tanto per tante ragioni (prima fra tutte il fatto che si arrampicava su un albero!), siamo venuti a contatto con questa storia apocrifa postevangelica, secondo la quale Zaccheo avrebbe conosciuto Veronica e con lei sarebbero andati in Normandia a fondare una comunità cristiana.

Questa coincidenza, l’associazione del possibile nome di questo bambino che stava per nascere con quello della sua mamma, ci convinse definitivamente che quello doveva essere il suo nome.

Da Gerico a Gerusalemme

Entrato in Gerico, attraversava la città. Ed ecco un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere quale fosse Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, poiché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per poterlo vedere, salì su un sicomoro, poiché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». In fretta scese e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «E’ andato ad alloggiare da un peccatore!».]Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Gesù gli rispose: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch’egli è figlio di Abramo; il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

(Luca, 19)

Zaccheo si muove rapido sulla strada per Betania. La bisaccia sulle spalle non gli pesa. L’umidità della notte impregna ancora la strada e i suoi sandali non sollevano polvere.

Ha lasciato Gerico che era ancora buio. Quando all’alba ha raggiunto i colli una foschia densa copriva la città, una foschia che il suo sguardo non è riuscito a penetrare. Sa che non rimpiangerà Gerico. Li ha lasciato la sua vita di prima. Se ne è liberato d’un colpo solo come si fa con un mantello troppo pesante. Prima però ha regolato i suoi conti. Ha restituito tutto quello che aveva preso ingiustamente, quattro volte tanto ha restituito. Ma poi il suo cuore gli ha detto che era ancora poco. Il suo cuore e gli occhi e il sorriso di quell’uomo glielo hanno detto. Come può dimenticare quegli occhi, quel sorriso. Mentre era a casa, fra tutte le sue cose credute indispensabili, aveva detto «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto» e mentre lo diceva sentiva gli occhi dell’uomo su di se e sentiva che a lui anche questo non bastava e sentiva che l’uomo sapeva che presto quello che sembrava un grande sacrificio sarebbe stato poco e quasi si vergognava mentre lo diceva, si sentiva smarrito, svuotato, solo. Poi nei giorni quella sensazione si era fatta reale. Aveva cominciato a sentire dentro di se come una sete simile a quella che lo aveva afflitto durante tutta la sua vita, della stessa intensità ma di senso opposto. Per tutta la vita aveva avvertito in maniera incontrastabile il desiderio di accumulare, di togliere agli altri per prendere e conservare per se; adesso avvertiva il bisogno altrettanto incontenibile di dare. Ognuna delle cose che lo circondavano e alle quali era stato tanto legato adesso gli appariva superflua, inutile e smaniava dal desiderio di privarsene. Così aveva regolato tutti i suoi conti semplicemente privandosi di tutto, donando tutto agli altri, a coloro che ne avevano bisogno, mettendo da parte ogni regola di giustizia per lasciare spazio soltanto all’amore. Anche quella bisaccia sulle spalle è stata frutto di parecchi ripensamenti. L’aveva fatta e disfatta molte volte e ogni volta aveva tolto qualche cosa lasciando alla fine soltanto una tunica, una zucca con l’acqua, il cibo sufficiente per un giorno di cammino. E’ quello infatti il tempo necessario per arrivare a piedi da Gerico a Gerusalemme, e Zaccheo è diretto a Gerusalemme. Non ha più nulla della sua vita precedente e a muoverlo è soltanto il desiderio di rincontrare l’uomo dal quale è stato chiamato da sotto il sicomoro e con il quale poi ha condiviso la cena a sera. Vuole dirgli di aver fatto come lui gli aveva chiesto con gli occhi e non con le parole, vuole chiedergli cosa farne di questa vita così nuova e così spaventosamente vuota, spera di avere il coraggio di dirgli che desidera seguirlo. Mentre cammina tutti questi pensieri si affollano nella sua mente, alcuni hanno l’aspetto di paure ma tutti assieme producono gioia, una gioia sconosciuta a Zaccheo prima. Adesso il sole è alto in cielo, i suoi sandali sollevano la polvere della strada e Zaccheo capisce di avere superato Betania senza neanche accorgersene. Non ha tempo per chiedersi a che punto della strada si trovi che Gerusalemme, bianca e bellissima, appare dietro l’ultima collina che la strada ha scavalcato.

L’oro e il bianco abbagliante del tempio attirano per primi la sua attenzione, ma poi con la coda dell’occhio scorge una figura seduta al lato della strada. E’ difficile distinguerla dalla corteccia dell’ulivo al quale si appoggia, la figura a Zaccheo appare come un grumo di dolore incastonato nel legno e prova pietà. Si avvicina con cautela. Si tratta evidentemente di una donna, i lunghi capelli ramati coprono completamente il volto. La donna è seduta a gambe incrociate, la schiena poggiata sull’albero, la testa piegata in avanti, le belle mani bianche strette attorno ad un cencio sporco di sangue. Zaccheo le si inginocchia davanti ad una distanza che ritiene adeguata. Non osa toccarla, non osa parlarle. Prima di tutto vuole capire se la donna è ferita o addirittura morta. Ma la donna respira e oltre allo straccio sporco di sangue non ci sono altri elementi che facciano pensare ad una ferita. D’un tratto una folata di vento le scosta per un attimo i capelli dal volto e Zaccheo con sorpresa la riconosce. E’ una delle donne che formavano la corte dell’uomo del Sicomoro. Molte donne erano con lui, molte più donne che uomini. Quella sera  a Gerico si era stupito di questo fatto. La maggior parte di loro erano solo un gruppo indistinto, poche erano anche troppo in evidenza, testimoniando così di un passato incongruo. Una sola stava in mezzo, la donna seduta adesso davanti a lui. Difficile per la verità pensare che si tratti della stessa donna eppure Zaccheo sa che è così. Quella sera aveva ammirato il suo silenzio fertile, la sua bellezza fuori dal tempo, le cure delicate e discrete riservate all’uomo del Sicomoro. Adesso riesce a stento a distinguerne i lineamenti schiacciati come sono fra i capelli sudici e arruffati e la manifestazione di un dolore inimmaginabile. Passano i minuti, la donna sembra non essersi accorta di Zaccheo e lui decide di dire qualche cosa nel tentativo di capire. “Cosa succede?” le chiede. La donna resta immobile come se il peso dell’albero non le permetta di muovere un muscolo. E dopo un poco “mi riconosci? Sono l’uomo che vi ha ospitato in casa sua a Gerico qualche giorno fa”. Qualche cosa nella maschera sembra vibrare dopo queste parole. Zaccheo allora continua: “eri con l’uomo del Sicomoro, è per lui che sono qua” Zaccheo sente la gioia affiorare alla labbra mentre dice queste parole “desidero raggiungerlo a Gerusalemme, dirgli che ho fatto tutto quello che lui si aspettava che facessi, che sapeva che avrei fatto. Forse tu sai dov’è, puoi accompagnarmi da lui.”. Parole e gioia si impigliano fra i denti di Zaccheo mentre lacrime copiose cominciano ad attraversare il volto della donna rimasto immobile. Sono l’unica cosa che si muove e scivolando portano via la polvere che le ricopre come un velo le guance. Zaccheo è smarrito. Vuole arginare quel pianto, non ne capisce la ragione. Allora toglie lo straccio dalle mani della donna per asciugarle le lacrime e lo straccio in quel tentativo, come fosse un lenzuolo steso ad asciugare al sole, si apre. E Zaccheo vede. Vede il volto dell’uomo del Sicomoro impresso su quella stoffa, disegnato con il sangue lo vede. Orbite vuote dove c’erano i suo occhi lucenti, grumi di sangue a sigillare la bocca che lo ha chiamato. Ha la sensazione che tutti gli ulivi di quel giardino gli stiano cadendo addosso, ha la sensazione che la terra sotto di lui si apra e lo inghiotta, ha la sensazione che non solo la sua vecchia vita ma anche quella nuova muoiano in quel momento e comincia a piangere anche lui, lungamente, per un tempo che non è più importante definire. Quando riapre gli occhi la donna è ancora immobile davanti a lui, il sole ha cambiato la sua inclinazione, gli occhi della donna adesso sono aperti. “Andiamo” dice Zaccheo. “Dove?” gli chiede la donna. “A nord” risponde Zaccheo. Poi alzandosi aggiunge “oltre il mare”. Anche lei si alza tenendosi delicatamente al braccio di Zaccheo. “Andiamo” dice la donna.

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