E’ ora di andare. Apro il cancello. Torno verso casa per lasciare le chiavi e saluto i miei cari. Un bacio a Cesare: “mi mancherai oggi piccolo“, “anche tu papà mi mancherai tanto tanto tanto“, ma si vede che è impegnato in altro. Un bacio a Zaccheo: “mi mancherai oggi grande“, “sgrunt!“, ma tanto so che gli mancherò più di quanto non mancherò al piccolo. “Buona giornata Vera“. “Buona giornata Franci“. Un bacio e sono già fuori.
Accendo la moto. Il casco in testa. Una piccola inversione. Un ultimo sguardo al giardino. Sono fuori. Comincia uno slalom fra buche della strada e cacche delle mucche del Signor Angelo (le ho viste passare mentre aprivo il cancello accompagnate dal Signor Angelo con il quale ci siamo scambiati un saluto silenzioso).
La breve salita fino alle cassette della posta. A sinistra. Il glicine dalle mille fioriture. L’orto esemplare del signore sconosciuto con il quale sono continuamente in gara (ma lui non lo sa). A destra, nuovamente in salita. Niente pozzanghere con le quali giocare stamattina. Peccato. Sono già sulla nazionale.
Il desolante spettacolo della spazzatura. Niente da vedere, niente da guardare. Solo mortificazione e occhi diritti a controllare il traffico che è già intenso.
Nuovamente verso il mare, il profumo del quale mi raggiunge per un attimo. Sono sulla rotonda dello svincolo e già da li lo vedo. E’ tranquillo ma teso. L’isola da esso circondata sembra incerta stamattina, un po’ preoccupata di cosa potrebbe fare oggi il suo possente compagno.
Non ho nessuna stima per colui che ha inventato i guard rail così alti. Immagino che abbiano a che fare con la sicurezza, ma con quelli di prima si vedeva il mare in ogni momento e adesso devo fare strane acrobazie per vederlo. A destra i monti. Il Raffo Rosso con tutto il suo mistero. Entro nel suo cono d’ombra. Sarà fausto? Poi non ci penso più. Un fiocco di nebbia avvolge una balza del monte: “forse non sarà così caldo oggi“. “La montagna è più verde di quanto non dovrebbe essere in questo periodo…sarà per le piogge di giugno“. L’abitato di Capaci è un’entità inafferrabile per i miei occhi, un pattern indistinto ed insignificante che si snoda continuo prima sotto la montagna e poi lungo la costa per diventare Isola delle Femmine.
Mi avvicino alla prima galleria. La temperatura cambia prima, cambia dentro. Offro come sempre la maggior quantità di pelle possibile all’aria e il vento mi ricompensa con mille sensazioni. Sulle braccia, sul collo, sulle gambe, fra le dita dei piedi, sul volto. A lavoro sostengono che il mio abbigliamento sia particolarmente informale.
Sono dall’altra parte, ho attraversato la montagna, fa impressione a dirlo. A sinistra la Baia del Corallo. Il mare è immobile, la luce è limpida e tutto sa di bello. Nuovamente l’odore del mare questa volta misto a quello dell’euforbia che viene dalla montagna. La zona militare, nonostante gli incendi, ha mantenuto intatta questa parte della montagna, e poi dicono che l’esercito non serve a niente.
La seconda galleria è vicina. Questa passa sotto la Montagnola. Là sopra so che c’è un sentiero, l’ho percorso due volte, sempre in discesa. Il sentiero finale, l’ultima rampa dopo quattro giorni di cammino attorno alla Conca D’Oro. La prima volta io e Paolo da soli, gli unici due arrivati dei quattordici partiti. E poi a Sferracavallo dopo giorni di liofilizzati: una pizza, un profitterol, un calzone fritto, un cannolo. Tutto questo per ognuno di noi e in quest’ordine.
La seconda volta ero con Mauro e Giancarlo. Di quella volta ricordo tutto di quell’ultima discesa, come Funes posso ricordare ogni passo fatto per arrivare dalle pendici del monte al mare. Dopo quella non ci sarebbero stati altre escursioni con Giancarlo.
Sono dall’altra parte della Montagnola e la temperatura cambia nuovamente. Sulla destra la parete a strapiombo: “perché non vedo più nessuno che fa palestre di roccia?“. In un altro tempo era la mia preferita. La breve salita sul fianco con tutta l’attrezzatura. La corda armata sugli spit saldamente infissi nel calcare. Dall’alto il mare di Sferracavallo, il porticciolo, l’acqua verde e ferma della baia, a distanza Capo Gallo. E poi la corda raccolta sul braccio e il lancio e il fischio che la corda fa cadendo nel vuoto. Fra poco si scende.
A sinistra Monte Pellegrino. Per fortuna ha il sole alle spalle. So esattamente dove sono le macchie di nero che lo feriscono dopo l’ultimo incendio di qualche giorno fa. Potrei segnarle una per una sulla sagoma che il controluce mi impone. Ma tanto altro si è salvato e per questo giorno possiamo farci bastare questa consolazione a mitigare la pena. Adesso corro in discesa sull’autostrada, sono quasi dentro la città.
Il tempo di scorgere ancora sulla destra Monte Cuccio e uno scorcio dei Monti dove la Conca D’Oro ha inizio: i Monti di Croce Verde, la Moarda, il Carpineto, la Portella del Garrone, il Pelavet, la Pizzuta. La sagoma di un palazzo li fa per un attimo scomparire dalla mia vista. Poi sono li nuovamente a ricordarmi che mi aspettano, che conoscono i miei piedi come io conosco le loro rocce, i loro alberi, i loro sentieri.
L’ultimo svincolo, passo sulla corsia laterale, alla mia destra il parcheggio dove metto la moto. Mi fermo, spengo la moto, la metto sul cavalletto. Comincia un nuovo giorno del mio ufficio.
Peccato tu non abbia potuto scattare qualche foto. Le tue descrizioni sono comunque tanto piacevoli e “percepibili”(si può dire?) 🙂
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secondo me si può dire…il fatto è che io e le foto non andiamo per nulla d’accordo.
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E questo è un vero peccato.
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è stato sempre così…deve essere qualche cosa nel mio cervello…Veronica infatti si arrabbia sempre perché nelle foto ci siamo sempre io e i bambini e mai lei (visto che è sempre lei costretta a fare le foto).
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E allora farò tesoro delle descrizioni!
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