Sono nato in settembre. Non ancora in autunno, ma alla fine dell’estate. In quel tempo in cui, qualunque sia la tua età, ti aggiri per le spiagge della vita mentre tutto sembra confermarti che un’estate ancora incrollabile è nell’aria, ma già senti che da qualche parte la diga sta cedendo, senti in un angolo della tua mente o del tuo corpo uno scricchiolio, un odore di salsapariglia, il canto che fa l’autunno quando, dolcemente, si sostituisce all’estate.
E’ per questo che sono una persona votata alla riflessione nostalgica (o magari no, ma l’affermazione è funzionale alla narrazione), una persona melanconica che sovente si guarda indietro a cercare l’origine di ciò che è importante, non in assoluto ma importante per se: i suoi valori, i suoi principi fondanti, tutto ciò che lo tiene qui convinto che il sentiero intrapreso sia, se non proprio quello giusto, almeno quello che vale ancora la pena percorrere.
Nel tempo, per esempio, mi sono spesso interrogato su “quando” abbia avuto origine questo grande amore che sento dentro di me e che nutro nei confronti del nostro Pianeta.
Credo che in questo senso i momenti cruciali siano diversi e ne riconosco almeno cinque. Li ripercorro in sintesi dal più recente al più antico, certo sin da adesso però che in questo post è di due di questi momenti che voglio parlare per potere poi chiudere il racconto sul corso di un fiume.
Il quinto momento è il mio incontro con l’Educazione alla Terra. Il momento in cui qualcuno (e questo qualcuno non è un uomo solo ma sono Steve Van Matre, Jon Cree, Gianni Netto, Paolo Cavallaro, Marilena Cappuccio e invariabilmente mia moglie, Veronica) mi ha regalato un metodo perfetto che mi desse la possibilità di comunicare alle persone il sentimento che io provavo e provo nei confronti del Pianeta, e il tempo e l’organizzazione per diffonderlo, promuoverlo, farlo conoscere.
Il quarto momento è stato la mia spedizione in Malesia. Un tempo strano che mi ha posto davanti una domanda fondamentale: quale e dove è la mia casa? E’ quella riconoscibile da un tetto solido, pareti resistenti, la possibilità di controllare la temperatura, la certezza dell’acqua e del cibo, oppure è il pianeta tutto? Il muschio del bosco come se fosse il più comodo dei letti, la protezione di una tenda come strumento per abitare il tempo, l’acqua della sorgente, dono aleatorio e indispensabile?
Il terzo momento è stato l’anno di università in Montana. Quello è stato il tempo dell’amore intellettuale. Il tempo che si offre alla narrazione, anzi che la narrazione impone perché il cuore ti scoppia quasi per la meraviglia che quotidianamente si schiude davanti ai tuoi occhi, e hai bisogno di razionalizzarla, hai bisogno di riportarla a sistema attraverso le parole se non vuoi che ti travolga (“to overwelm” dicono gli inglesi ed è un verbo bellissimo) e ti riassorba dentro i tuoi sistemi senza che di te resti nulla de “l’individuo” che eri.
E adesso un piccolo salto, l’inserimento di un “disorganizzatore” che sempre per compiacere la narrazione, mi porta al primo momento: il tempo che io chiamo “le mie 10 estati”. Dovevo essere veramente piccolo quando lessi il libro di Garson Kanin “Mille estati” (mi vergogno a dirlo ma temo di averlo letto nella versione ridotta della Reader’s Digest che allora andava molto forte a casa dei miei). La frase che mi impressionò di più e che ancora adesso resta impressa nella mia mente è (cito a memoria): “il tempo inclemente a coloro che si amano concede mille estati“. Per me bambino autunnale, già da allora in grave conflitto con il tempo, questo fu una specie di vaticinio. Dentro di me mi sentivo al sicuro: avevo già chi amavo più di me stesso e quindi il tempo mi avrebbe di sicuro concesso un simile privilegio. Fu allora che imparai probabilmente a distinguere fra la buona e la cattiva letteratura: la prima capace di descrivere emozioni che tu non saresti capace di descrivere, la seconda che ti fa credere cose che non sono vere.
Le mie prime dieci estati: dovrò trovare prima o poi il “tempo” e il coraggio per provare a raccontarle. Di sicuro sono state il tempo dell’amore inconsapevole. Quell’amore “naturale”, quello che ti viene da dentro e che tu nemmeno sai bene cosa sia. L’amore che attribuisci gratuitamente a quella campagna apparentemente serena ma profondamente selvaggia di una montagna senza boschi. L’amore che nutri nei confronti di tua madre, anch’essa donna apparentemente serena ma in fondo ancora più selvaggia di quella montagna che l’ha generata. Dieci estati rimaste impresse dentro di me, di cui ricordo più i tramonti che le albe, più le rare giornate di pioggia che le interminabili giornate di sole. Le uniche vissute al fianco di quella madre che era tutto, la terra stessa nella quale cominciavo ad immergere allora le radici di questo amore per il pianeta. Di quella madre che mi ha accompagno fino a quando ha potuto, per salutarmi durante l’undicesima estate, trascorsa in un luogo diverso, senza una lacrima che io potessi scorgere, perché anche quella sofferenza mi fosse risparmiata (si diventa veramente così teneramente stupidi quando ci avviciniamo al “varco”?).
Infine il secondo momento. Quello dell’amore consapevole. Avevo dodici anni quando ho cominciato il mio breve ma intenso periodo scout. Mi chiedo con che cuore mio padre mi lasciò andare, a 12 anni, dopo tutto quello che era accaduto, per il mio primo campo estivo di quindici giorni. Ma forse anche lui, reduce da un incubo durato quasi due anni, accolse la cosa come una liberazione per se stesso e per me. Fu allora che entrò nella mia vita il fiume. Il nostro campo sorgeva accanto al fiume. Di notte potevo percepire con chiarezza il suono che faceva scorrendo. A pochi passi dalla nostra tenda c’era il pioppo caduto che incurvatosi sul fiume fungeva da ponte per guadagnare l’altra sponda. C’era la cascata dove ci lavavamo, c’era la sorgente dalla quale prendevamo l’acqua da bere. Il ciclo dell’acqua, il ciclo più potente, più dinamico, più veloce e al tempo stesso costante, fra quelli che costituiscono il motore del nostro pianeta, era entrato in relazione profonda con me ed io con lui, e mi avrebbe accompagnato per tutta la mia vita. Mia moglie dice di me che quando vedo dell’acqua, fosse anche una pozzanghera, non posso fare a meno di fiondarmici dentro: adesso lo sa, la colpa è del fiume.
Da quella dodicesima estate ho frequentato il fiume solo sporadicamente fino a quando, qualche anno fa, il mio amico Giuseppe (che su quel fiume è nato) non mi ci ha riportato. Il fiume mi aspettava. Mi ha donato un luogo nel quale portare i miei bambini, un posto dove il Grande potesse inzuppare il suo pane e dove il Piccolo potesse raccogliere i suoi girini. Mi ha fatto scoprire una casa, conoscendo la mia incapacità di “uomo piccolo” nello scegliere definitivamente l’unica vera abitazione. Mi ha fatto conoscere e riscoprire persone che costituissero un nucleo, buono per cominciare una storia e per portarla a termine. Mi ha dato la sensazione di essere al centro, in un incrocio di storie, verità, sentimenti, che alla fine è ciò che sempre mi convince di trovarmi al posto giusto e di restarci almeno per un po’.
E con la sua voce, che ancora mi parla come durante quella dodicesima estate, tenta di convincermi che non sono su quella montagna senza boschi le mie radici, ma che le radici infondo le porti con te, ché siamo alberi che si muovono, che possono staccare lo spinotto da luogo in cui sono nati e riattaccarlo in qualunque altro punto del Pianeta in cui, magari, ci sia un fiume pronto a dare acqua per il pane dei tuoi bambini.
Non fosse per lo spirito, non fosse per gli spiriti.
E allora, in questo tempo in cui ascolto la sua voce, incerto se riattaccare o meno questo mio spinotto, incerto se credere che le “dieci estati” siano state in fondo le uniche vere estati della mia vita, o se tutto abbia avuto veramente inizio con la dodicesima estate, io, ogni volta che posso, percorro la strada che porta al fiume.
Lascio la macchina fra gli alberi, in cima alla strada sterrata. Scendo lentamente fino alla pineta. Già li mi raggiunge la voce. Mi blandisce, continua la sua opera. Pochi passi e sono sulla sponda. Dietro di me il “Tredici Luci”. Davanti a me la strada fra i pioppi. L’odore dei pioppi, la voce del fiume, il calore della sabbia sui piedi, la voce del fiume.
Il primo guado e poi il sentiero che serpeggia fra la vegetazione. A sinistra i mirti, i corbezzoli, i lentischi. A destra ancora i pini, opera, in fondo gentile, di un uomo capace di cose ben peggiori. Lentamente verso il secondo guado, con un rametto di finocchio selvatico in bocca: oggi non c’è tempo per arrivare fino alla centrale elettrica abbandonata. Mi fermo, superato il secondo guado, sulla piccola spiaggia, distesa accanto alla “naca”.
E li mi immergo con la sensazione, tipica dell’amante poco oggettivo, che in fondo il fiume non sia così freddo. Controllo che nella tana del granchio sia tutto a posto, mi lascio carezzare il viso dal capelvenere, mi tengo con la mano alla radice dell’oleandro per contrastare la corrente gentile. Se Cesare è con me saranno risate e schizzi e lunghe farneticanti storie sui girini e sulla loro mamma. Se Zaccheo e con me ci saranno di sicuro domande di “alto rigore scientifico” e magari un’esplorazione a monte fino ad un luogo segreto, dal nome irripetibile, che conosciamo solo io e lui. Se Veronica è con me, staremo seduti sulla spiaggia, uno a fianco all’altro, senza tante parole di cui in fondo non c’è bisogno.
Se saranno tutti assieme, se li avrò tutti vicini, tutti con me nello stesso tempo a sentire quel canto che alla fine non senti più perché coincide, goccia per goccia, con il fluire del tuo sangue, allora mi limiterò a guardarli, incerto sul confine della mia cinquantaduesima estate chiedendo a me stesso: “che sarà di me in Illiria?“.
E’ bellissimo, una delle cose più belle che abbia letto
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sei molto gentile…ti ringrazio per l’apprezzamento e per la pazienza mostrata nell’arrivare fino in fondo…
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Non ce l’ho quella pazienza, se una cosa non mi prende…
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e allora “grazie” a maggior ragione…
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È vita, amore, dolore e tenerezza. Lirismo allo stato puro. Stupendo.
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grazie di cuore…è un complimento bellissimo.
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“Perché nessuno possa dimenticare di quanto sarebbe bello se, per ogni mare che ci aspetta, ci fosse un fiume, per noi.” Baricco non ti piace, lo so. Però leggerti mi ha fatto pensare a queste parole!
Un bellissimo post, davvero. 🙂
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E a me piace molto anche questa frase di Baricco…vuoi vedere che in tarda età mi toccherà anche rivalutare lui!?
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Ho appena scritto un commento su “Predisporsi all’incontro” che potrei ricopiare qui aggiungendo la comprensione profonda avuta adesso del tuo immenso trasporto per l’acqua. Dentro questo post c’è tutto di te…
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Grazie Mari…come dicevo nel post “Voglio adesso”: alla fine rimescolo da anni sempre le stesse quattro cose….
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Saranno pure “le solite 4 cose”, come scrivi tu, ma ti rappresentano fortemente e sono te! Si tratta di “4 cose” di non poco conto attorno cui gira davvero tanta roba…
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