La nostra mente alla fine non è così misteriosa come sembra. Soprattutto con i ricordi non funzioniamo molto diversamente da un qualunque “motore di ricerca” (che d’altra parte è a sua volta prodotto della nostra mente).
Inseriamo una parola chiave, un’immagine, un odore e un sapore (ma di questo i computer ancora non sono capaci) e recuperiamo un ricordo, più o meno vivido, più o meno reale.
Due sono i cortocircuiti che mi hanno permesso di recuperare il ricordo che fra poco racconterò.
Il primo riguarda il mio bambino Piccolo. Il Piccolo non è dotato nel suo eloquio della lettera ERRE, da lui sostituita con la ELLE. Non ne soffre per nulla. Anche il Grande aveva lo stesso problema da piccolo, ma da persona mite e propensa ad andare incontro al mondo quale è, durante uno dei nostri interminabili viaggi in auto (avrà avuto due anni) si produsse in un esercizio di parecchie ore seduto nel sedile posteriore che alla fine del viaggio produsse una perfetta dizione della lettera in questione. Il piccolo è diverso, molto diverso. E’ il mondo che deve andargli incontro. Lui non pronuncia la ERRE? Poco male, saremo noi che dovremo sforzarci per capirlo. A lui semmai il compito di farci pensare non solo che lo sforzo sia minimo ma che in fondo sta lettera ERRE non ha grande importanza. E infatti sia noi famigliari che le sue maestre ormai “palliamo” tutti così e riteniamo che in fondo questa lettera all’interno del nostro alfabeto non sia così importante. Al massimo quando dice “il Le” ci limitiamo a chiedere se parla del “Le quello con la colona”.
Cesare dunque non si fa plasmare dalla Parola, ma la plasma a suo piacimento e per questo è capace di produrre innumerevoli neologismi e giochi di parole fa i quali spicca “Pistola di molimento” che serve a descrivere (da figlio di ambientalisti pacifisti quale è) un’arma che sia veramente capace di uccidere.
Il secondo cortocircuito è figlio invece dei sette minuti di libertà compresi fra “il lavoro diurno” e “il notturno travaglio”. Sette minuti che per lo più vengono opportunamente spesi davanti alla TV. Ieri sera questa finestra di libertà è stata sacrificata sull’altare di un programma veramente di qualità. In sintesi si tratta di una specie di reality in cui due fresconi di sesso differente vengono scodellati nudi come mamma li ha fatti all’interno di un ambiente molto selvaggio e lasciati li per 21 giorni a cavarsela da soli.
Superfluo qualunque commento. Una cosa però in questa puntata è stata detta che assieme alle capacità figliesche di modificare le parole, mi ha fatto scattare il ricordo: nella giungla (i due erano in quella del Belize) uno dei rischi più grossi che si corrono è quello di vedersi cadere sulla testa uno degli enormi alberi, visto che questi cadono all’improvviso e senza dare segni premonitori.
E adesso andiamo alla storia.
Era il 1987 quando finalmente riuscii a realizzare il mio sogno: partecipare all’Operation Raleigh (che da li a poco avrebbe cambiato nome in “Raleigh International”). Un’organizzazione britannica che dava la possibilità a giovani di età compresa fra i 18 e i 25 anni di partecipare a spedizioni scientifiche e umanitarie nei luoghi più selvaggi e suggestivi del mondo supportati e al supporto di prestigiose istituzioni di ricerca inglesi e americane.
Sarà racconto di un altro giorno quello riguardante le peripezie affrontate per procurarmi lo sponsor necessario per partecipare. Fatto sta che assieme a Giulia, nell’estate del 1987 ero pronto per partire per la Malesia. Tre mesi da vivere fra il Borneo e e la Penisola della Malacca in altrettante spedizioni. La seconda finalizzata alla ricerca speleologia in un’area del Borneo all’interno della regione di Sarawak (al tempo la speleologia era la mia grande passione). L’ultima era invece una campagna di ricerca e rilevazione di un tratto di barriera corallina nell’Isola di Pulau Tinggi al sud del Mare della Cina finalizzata alla creazione di un Parco Marino. Oggetto di questo racconto è invece la prima spedizione.
Obiettivo di questa era la creazione di una torre di avvistamento ornitologico, dotata di una serie di passerelle aeree all’interno di un parco nazionale: il Lambir National Park (anche questo a Sarawak). Un mese di vera immersione nella giungla. A noi “uomini della prima fase” toccò soprattutto il lavoro di trasporto, lungo i 2 chilometri che separavano la zona in cui arrivavano i mezzi di trasporto da quella dove avremmo costruito la torre, di tutti i materiali necessari alla costruzione. Un lavoro da veri egizi costruttori di piramidi. Ma il pomeriggi facevo la doccia sotto una cascata che avevo scoperto nel fitto della giungla circondato dalle scimmie e dai cervi nani e solo questo bastava a compensare la fatica del giorno.
Al contingente internazionale (eravamo in tutto 120 ragazzi che arrivavano da una decina di nazioni) si era affiancato un piccolo contingente malese. Ragazzi locali che assieme a noi vivevano questa incredibile esperienza. Con uno di loro in particolare avevo fatto amicizia. Nella mia difficoltà di pormi in relazione costruttiva con gli inglesi (che costituivano il grosso del contingente) quando si presentano in gruppi superiori alle tre unità, preferivo di gran lunga stringere rapporti con i ragazzi che arrivavano da altre nazioni. Per questo Dug diventò uno dei miei più affezionati compagni di lavoro e di avventura. Fra l’altro Dug era anche abbastanza emarginato fra i suoi connazionali. Egli era infatti originario di una tribù di Daiacchi, noti per la pratica non molto popolare di tagliare e rimpicciolire le teste dei loro nemici (e per la verità anche in odore di cannibbalismo). Questo produceva una sorta di preconcetto che all’interno del suo gruppo lo portava ad essere continuamente al centro di scherzi anche spiacevoli.
In somma quando c’era da portare una trave 15 x 15 x 300, io sceglievo Dug e Dug sceglieva me.
Poi venne il giorno fatidico. Nella zona in cui avevamo cominciato ad eliminare tutta la vegetazione bassa per fare spazio alla base della torre, io e Dug eravamo seduti l’uno accanto all’altro che riposavamo un poco fra un trasporto e l’altro.
A questo punto però devo ammettere di essere un po’ strano. Il mio cervello pone in relazione eventi, dettagli, fatti che molte altre persone non correlano. Questo ogni tanto produce nella gente la sensazione che io riesca a vedere le cose che accadranno qualche secondo prima rispetto agli altri. In quel caso a fare scattare la mia “preveggenza” fu il vento che improvvisamente sentii arrivare. Era un fatto mai registrato nei giorni che avevo passato in giungla. Il vento non era mai riuscito fino a quel momento a farsi strada nell’intricata vegetazione. Questo fece scattare immediatamente dentro di me un campanello dall’allarme:
vento + alberi morti = rischio altissimo di caduta alberi
Credo veramente che fra l’elaborazione di questa specie di pensiero (molto meno cosciente di quanto non lo abbia descritto adesso) e il boato di una vera e propria esplosione, sia trascorsa una frazione di secondo, quanto bastava per far si che rivolgendomi a Dug gli dicessi: “questo vento non mi piace proprio, ho la sensazone che possa succedere qualche cosa di molto brutto” . L’albero al quale eravamo appoggiati, alto una trentina di metri, stava letteralmente esplodendo sopra la nostra testa. Io rispetto a Dug avevo però qualche frazione di secondo in più di “riflessione costruttiva”, di sicuro non utile alla produzione di alcun pensiero eroico (ammesso che io ne sia capace anche con tempi più lunghi) ma di certo sufficiente a mettere in movimento i miei muscoli con un po’ di anticipo. Saltai. Nel salto fu coinvolto anche Dug che finì sotto di me, che per quanto magrissimo al tempo (molti dei lettori non ci crederanno) ero sempre decisamente più corpulento del piccolo Daiacco. Il risultato di questo salto fu che io mi presi sulla schiena una grande quantità di schegge che produssero un vero sconquasso nei mie “teneri tessuti” mentre Dug restò praticamente illeso.
Questa cosa produsse in lui due convinzioni:
- io ero magico perché ero riuscito a prevedere ciò che stava accadendo;
- io ero un eroe perché gli avevo deliberatamente (!!!) salvato la vita.
Il resto nel mio ricordo è molto confuso.
A pochi secondi dall’incidente cominciò a scaricarsi sulla giungla una pioggia torrenziale. Il mio trasporto a spalle alla nostra base logistica credo che fu veramente complicato. Io da parte mia non capivo molto di quello che stava succedendo. Un certo tempo indefinibile passato dentro la capanna che costituiva il nostro quartiere generale. Una febbre devastante che arrivò quasi subito. Il trasporto all’ospedale più vicino con una camionetta dell’esercito con accanto un soldatino malese con tanto di elmetto e fucile che batteva i denti dalla paura (o magari anche dal freddo per la pioggia che continuava a cadere incessantemente) visto che si diceva che in quel tratto di strada c’erano stati attacchi da parte di “pirati” che assalivano i convogli depredandoli non prima di avere ucciso tutti. Il pensiero veramente surreale che mi accompagnò durante tutto il viaggio: “ma se dovessi morire qui, dove è che i miei genitori potranno venire a lasciare un fiore?” (il mio cervello ha sempre funzionato in maniera strana senza alcun bisogno di supporti chimici). Quattro giorni in un ospedale malese (che faceva sembrare gli ospedali siciliani roba “americana”) passati quasi tutti in uno stato confusionale figlio delle febbre che sembrava non volermi lasciare, del trauma, delle infezioni che nel frattempo erano sopravvenute.
Una cosa però ricordo con estrema chiarezza. Ogni volta che uscivo fuori da questo stato di scarsa coscienza trovavo accanto a me a vegliarmi e pronto ad assistermi in ogni mio bisogno Dug.
Mi ripresi in fretta. In tempo per tornare ancora in giungla a lavorare ancora un po’ alla torre. Esonerato dal trasporto e impegnato in lavori di carpenteria. In tutto quel tempo Dug fu al mio fianco: gli avevo salvato la vita ed ero magico e questo faceva di me un personaggio da tenere in considerazione.
Nelle due fasi successive della spedizione io e Dug fummo mandati a fare cose diverse. I gruppi ad ogni fase venivano infatti riassortiti e io non ricontrai più Dug se non alla fine della spedizione, durante gli ultimi giorni che passammo con tutto il contingente a Kuala Lumpur.
Nelle ore che precedettero il ritorno a casa fui nuovamente assalito da una febbre devastante e incoercibile. Credo di conservare ancora da qualche parte il foglio di carta che il medico del contingente scrisse a beneficio dei sanitari italiani, una volta rientrato. C’erano scritte soltanto 3 parole intervallate da 2 O: malaria o tifo o colera. Ma alla fine la causa fu probabilmente un abuso di aria condizionata dopo tre mesi di clima tropicale.
In quella condizione nuovamente confusionale si presentò ancora una volta Dug, questa volta con un regalo.
Si trattava di una minuscola scultura fatta su pietra dolce. Una cosa alla quale aveva lavorato evidentemente nei due mesi nei quali non eravamo stati assieme. Riproduceva nella parte superiore un coniglio (il mio segno zodiacale secondo l’oroscopo cinese). Sotto la base c’era invece un’ideogramma cinese a mo’ di timbro, di sigillo.
Dug accompagnò il dono più o meno con queste parole: “questo oggetto lo ha fatto io per te. Lo ho fatto perché sei magico, perché mi hai salvato la vita ma soprattutto perché grazie al tuo nome (il vero eroe che è arrivato alla fine di questo lunghissimo post è pregato di fare particolare attenzione a questo ultimo passaggio) tu sei in grado di trasformare il vento che uccide in una forza che trasporta e che serve l’uomo“.
Fra febbre, problemi di lingua e complessità della questione credo di avere fatto una faccia a forma di punto interrogativo e a quel punto Dug provò a chiarire: “tu ti chiami Flancesco (pronuncia orientale del mio nome) e io ti ho sempre chiamato Flan, questa è infatti la parola che corrisponde all’ideogramma sulla statuetta, che nella mia lingua vuol dire anche Vela, e la Vela è quell’oggetto trasforma il vento pericoloso in una cosa utile per l’uomo“.
Commosso ringraziai con un calorosissimo abbraccio italiano (avevo 40 di febbre) che lascio senza parole e senza fiato in mio orientale amico.
Non ebbi naturalmente i coraggio di dirgli che il mio nome tuttalpiù si poteva abbreviare in Fran e non in Flan.
Dug (come il mio bambino piccolo) aveva plasmato le parole e non aveva lasciato che avvenisse il contrario. Per dare un senso alle cose, senso al quale lui credeva profondamente, si era concesso una “licenza poetica di vita”.
Ancora oggi quell’ideogramma, assieme alla statuetta, costituisce uno dei valori più cari e significativi per me e per tutta la mia famiglia.
Davvero un bellissimo racconto che ho letto tutto fino alla fine con tanta emozione. Grazie per avercelo raccontato, Flan! 🙂
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“Glazie” a te per avere avuto la pazienza di leggerlo fino alla fine.
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È stato un piacere!
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…si dice “Piacele”…
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Oooops, velo! 🙂
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Questo Flan è veramente impresso nella nostra storia. Impresso in senso letterale…
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è così Amore mio.
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Non ci credo che non hai notato che “Vela” è la pronuncia cesarese del nome di tua moglie…
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e invece non ci avevo mai pensato…tutto si tiene Mari…grazie per averci svelato anche questo “segreto”…
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