C’è una storia, che ha a che fare con le mie attività di cooperazione, che amo particolarmente. In realtà non dovrei andarne molto orgoglioso. La morale di questa storia infatti è: “le cose avvengono anche se non le avevi previste e organizzate”.

Ecco la storia.

Quando siamo arrivati in Tanzania e abbiamo cominciato a portare avanti la nostra idea di cooperazione di comunità, il nostro primo obiettivo è stato quello di capire, assieme alla gente del posto, quali fossero le risorse delle quali erano maggiormente carenti.e in che maniera era possibile provare a recuperare queste risorse.

Capimmo subito che una delle risorse che sull’altopiano stava scomparendo era la legna da ardere. L’Africa dell’altopiano infatti è una di quelle che sfuggono a molti stereotipi. La quota dei villaggi nei quali lavoriamo varia fra i 1.500 e i 2.000 metri e quindi d’inverno le temperature sono basse e di notte si arriva anche vicino allo zero. La gente dei villaggi quindi per riscaldarsi e cucinare consuma una grande quantità di legna. Legna che cerca di recuperare dapertutto, pratica che stava producendo la completa deforestazione dell’altopiano con tutta una serie di conseguenze negative sull’ambiente naturale e l’equilibrio idrogeologico. C’era ancora un elemento che notammo subito. Come spesso avviene in Africa (ma non solo) sono le donne a farsi carico di gran parte del lavoro e questo quasi in tutti i settori. Una delle immagini che diventarono per noi presto consuete era quella di una fila di donne di varie età (anche bambine) con enormi fascine di legna che riportavano a casa dopo averla raccolta anche a 20 chilometri di distanza dal villaggio.

Attivammo così il nostro progetto forestale. Cominciammo ad acquistare terreni da persone che potevano privarsi di parte dei loro fondi (generalmente i terreni più marginali). Attuammo un piano forestale che a fronte di un’analisi ambientale ci desse certezze su quali fossero le specie migliori da impiantare e dove, per mitigare gli eventuali problemi ambientali. Una volta impiantate le aree le restituimmo alla comunità di villaggio perché “comunitariamente” si occupassero della gestione e ne traessero beneficio una volta che le piante sarebbero entrate in fase produttiva. In dieci anni piantammo poco più di mezzo milione di alberi. A distanza di qualche anno il sistema cominciò a dare i suoi benefici. La comunità di villaggio cominciò i tagli scegliendo di volta in volta se vendere il legname più pregiato o utilizzarlo per usi comunitari. Gli scarti venivano invece resi disponibili alle donne sempre alla disperata ricerca di legna facendo si che le distanze da coprire per la raccolta di riducessero drasticamente.

Subito dopo ci rendemmo conto che l’altra risorsa sull’altopiano praticamente assente era l’acqua potabile e che anche quella non potabile era difficilissima da reperire. Chi se lo poteva permettere (ma per quello era necessario avere almeno un tetto di lamiera e appositi contenitori) durante la stagione delle piogge raccoglieva l’acqua piovana.Durante la stagione secca tutti ricorrevano all’acqua del fiume, difficile da recuperare e trasportare, inquinata dal punto di vista chimico, fisico e biologico, causa di gravissime patologie soprattutto ai danni dei bambini, che quasi nessuno bolliva a causa della scarsità di legname.

Cominciammo per prima cosa con il definire sistemi per una più capillare distribuzione dell’acqua del fiume. Questo avrebbe reso la vita delle donne un po’ più facile. Anche in questo caso infatti sono loro che si occupano dell’approvvigionamento idrico della casa e della famiglia. Secchi da 25 chili sulla testa la mamma, secchio da 15 la figlia più grande, secchio da 10 la seconda figlia, bidoncino da 5 litri la piccola che a mala pena cammina. In pochi anni nel villaggio di Pomerini (che è il villaggio centrale del nostro sistema con 3000 abitanti) le fontane passarono da 3 a 30 e in conseguenza si ridussero enormemente le distanze e i tempi di attesa.

Poi abbiamo cominciato con i pozzi. Il primo sempre a Pomerini. Acqua perfettamente potabile, prelevata a una profondità superiore ai 100 metri. Un risultato dal punto di vista epidemiologico incalcolabile. Poi il secondo pozzo a Kitowo. E siamo già alla storia di oggi.

Risorsa legna prima e risorsa acqua poi. Ci sembrava di essere stati capaci, assieme alla popolazione locale, di individuare quali fossero le risorse più importanti e di dare una risposta.

Poi un giorno mi sono trovato a passeggiare dietro Casa Tulime. E ho scoperto che alcune donne del villaggio avevano organizzato una specie di “industria informale”. Avevano cominciato a produrre vasi di terracotta. Vasi bellissimi e funzionali (questo è l’artigianato) da impiegare in molteplici usi. Vasi che le donne di altri villaggi vengono a comprare anche a costo di fare svariati chilometri e di partire di notte, pur di avere la certezza di trovarne ancora.

Non era un progetto attivato da noi. Non avevamo proposto  noi la cosa, non rientrava nel nostro progetto Mani d’Africa. Mai prima nei nostri villaggi un’iniziativa del genere aveva visto la luce. Cosa era successo? Cosa non eravamo riusciti a prevedere? Quale risorsa si era liberata senza che noi ce ne rendessimo conto? Non avevamo dato alcun impulso (almeno consapevolmente), non avevamo reso disponibile alcuna risorsa economica, non avevamo fornito alcuna competenza.

Senza rendercene conto avevamo dato alle donne dei nostri villaggi la risorsa più importante, quella che all’inizio del nostro lavoro non eravamo nemmeno riusciti a riconoscere come tale: il tempo.

Avevamo aumentato la quantità di legna in siti più vicini ai villaggi. Le donne avrebbero dovuto impiegare meno tempo per andare a raccoglierla.

Avevamo distribuito l’acqua in maniera più capillare accorciando di gran lunga i percorsi che le donne dovevano fare ogni giorno per andare a prenderla al fiume.

Avevamo provveduto a rendere disponibile acqua più pulita riducendo i problemi sanitari derivanti dall’acqua inquinata permettendo alle donne di destinare meno tempo alla cura dei bambini ammalati.

Avevamo, senza rendercene conto, liberato la “Risorsa Tempo”. E allora le donne erano riuscite a venire fuori da una condizione di mera sussistenza, avevano finalmente avuto tempo per discutere fra di loro, confrontarsi, capire chi sapeva fare cosa, in che maniera questa competenza era condivisibile, che cosa avrebbe potuto produrre che fosse utile ad altre persone della comunità o di altre comunità migliorando contemporaneamente il loro reddito…e avevano deciso di mettersi assieme per cominciare a produrlo.

Il tempo era il padre dei vasi, era la risorsa più importante che non avevamo capito, dava una nuova dimensione allo spazio neutro di negozziazione.

Le donne di Pomerini mi hanno insegnato che nella pratica della cooperazione di comunità ci sono situazione nella quali prima di traguardare l’obiettivo di “Darsi il tempo” bisogna porsi quello di “Dare il tempo” a chi non ne ha.

5 pensieri su “La risorsa più importante

  1. Questa storia mi piace tantissimo!
    Ottenere un bene immateriale (il tempo) donando un bene materiale (legno ed acqua). Che storia!
    Imprevedibilmente stupendo tutto ciò.
    Questa storia mi insegna che darsi tempo vuol dire prendersi cura di capire i bisogni altrui e collaborare per vivere meglio insieme.
    Grazie Francé

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  2. Questo articolo mi fa riflettere molto. Non si pensa quasi mai al tempo come ad una risorsa, eppure come avete dimostrato è una delle risorse più preziose che abbiamo durante la nostra permanenza sulla terra.
    Grazie per averci resi partecipi ma soprattutto grazie per il lavoro che fate.

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