Da tempo volevo scrivere un racconto sulla singolare cucina di casa mia, il luogo dove cibo, uomini e libri si incontrano e si contaminano. Nelle ultime ore, come spesso avviene nella mia testa, ci sono stati alcuni cortocircuiti. Quella che era solo un’idea ha trovato una trama, un finale, dei personaggi e finalmente il racconto, da “soluzione” che era, è precipitato al fondo della mia mente e ha preteso di essere subito dato alla luce. Di seguito il risultato.

P.S. al racconto è collegato una specie di quiz: chi indovina i sei libri che hanno ispirato le allucinazione del protagonista?

La Bibliocucina

Vivevano in una casa strana. Questo lo sapevano sin dall’inizio, dalla prima volta che giunsero per labirintiche stradine a quel rettangolo di “selvaggio” miracolosamente scampato alle speculazioni edilizie di ogni tempo in quel pezzo di Sicilia. D’altra parte glielo confermavano quotidianamente gli sguardi di amici e parenti, tutti decodificabili entro la gamma che andava dal “ma sono pazzi!” fino a “è bellissimo ma io non lo farei mai”.

Loro oramai da anni vivevano, irresponsabili e felici, in questo mondo fatto di galline, api, orti, cucina naturale, ragnatele, spazzamento compulsivo dei pavimenti, irrigatori, crolli psicologici, andirivieni continui dalla città. Sembravano reggere. Avevano anche avuto il coraggio di chiamare la casa Walden, e questo la dice lunga sul luogo e sull’equilibrio mentale dei suoi abitanti.

Fra tutte le stranezzee di questa casa ce n’era una di particolare rilievo. Quando lui (da ora il poi lo chiameremo “il padre”) era ancora impegnato nella sua vita di prima, nella casa di prima, aveva fatto costruire da un amico falegname un’enorme libreria di legno. Una di quelle che ricomprono un’intera parete, da destra a sinistra, dal pavimento al soffitto.

Quando assieme a lei (da ora in poi la chiameremo “la madre”) e al primo figlio (che chiameremo “il grande”) si erano trasferiti nella nuova casa si era posto subito il problema: la mega struttura non entrava da nessuna parte. Per meglio dire: l’unica stanza nella quale, apportando qualche piccola modifica, questa sarebbe potuto entrare era la stanza che avevano previsto di adibire a cucina. La scelta era palesemente assurda. La famiglia neoinsediata non esitò un minuto a prenderla. D’altra parte tutta la casa era invasa dai libri (camera da bagno compresa) e non si capiva quindi perché la cucina avrebbe dovuto sfuggire a questa sorte.

Ciò diede vita a uno degli ambienti “fusion” della casa (non l’unico, al piano di sopra c’era per esempio la stanza da bagno/cabina armadi) che presto fu ribattezzato: la bibliocucina.

La bibliocucina era quindi così composta. La parete nord era integralmente coperta dalla libreria, ad eccezione di uno spazio centrale all’interno del quale avevano incastonato un’enorme caldaia a pellet che provvedeva al riscaldamento di tutta la casa. La parete sud e quella ovest costituivano la cucina vera e propria: pensili, scaffali, piani di lavoro, elettrodomestici. La parete est poteva essere definita come: “il tentativo di tenere assieme ciò che assieme non può stare”. C’era un divano, un mobile basso, una vetrina, sistemati li nel disperato tentativo di creare una specie di zona di transizione fra la “Biblio” e la “cucina”. Al centro della stanza c’era il tavolo dove la famiglia si riuniva per consumare i pasti.

Come avviene in tutte le situazioni in cui le persone producono stranezze e le accettano senza troppo stupirsene, la situazione per questa famiglia appariva abbastanza normale.

Accadde poi, con il passare del tempo, che il padre cominciasse ad appesantirsi un poco. Una parafrasi usata per non dire che il capofamiglia era abbastanza in sovrappeso. Difficile d’altra parte non esserlo, considerato i buoni prodotti che riuscivano a tirare fuori dalla minifattoria che circondava la casa e le capacità culinarie della madre.

Un po’ di dieta diventò quindi un obbligo per il padre. Dapprima provò sempicemente a limitarsi un poco, a muoversi un po’ di più. Nessun risultato. Poi provò con uno di quei sistemi a base di tisane e strane capsulette da prendere in vari momenti della giornata. Niente da fare. Si affidò ad un dietologo di fama quantomeno cittadina. Macchè, continuava a prendere peso.

Un giorno la moglie tornò con una notizia: nell’ultimo periodo in città spopolava una nuova figura in campo dietologico. Era una via di mezzo fra il nutrizionista, il personal trainer e lo psicologo. Questo tipo veniva a casa tua, ti osservava per qualche ora o qualche giorno, capiva come mangiavi, come ti muovevi, che relazione avevi con i tuoi familiari, in che ambiente vivevi, e poi tirava fuori una specie di protocollo che, se fedelmente seguito, prometteva di risolvere i tuoi problemi.

Il padre accolse con il solito scetticismo la novità ma poi messo alle strette dalla madre e dal grande che continuava a prendere spietatamente in giro la sua pancia, decise che valeva la pena provare.

Il Dietopsicotrainer si chiamava Giovanni. Era stato lui per primo a portare questa nuova moda in città. Da parte sua lui a questa cosa ci credeva proprio. E questo si vedeva da come conduceva il suo lavoro e i suoi clienti glielo riconoscevano restituendoglielo in forma di fedeltà e fiducia.

Giovanni fu raggiunto da una chiamata della madre che in breve gli spiegò la problematica che affliggeva il marito, tutto quello che avevano fatto fino a quel momento per risolverla e infine aggiunse qualche parola sul fatto che il padre aveva accettato di provare anche questo più per gli insuccessi precedenti che per reale convinzione circa l’affidabilità del metodo.

Giovanni, che già aveva accumulato una notevole esperienza, non si fece intimorire da quanto detto dalla madre e fissò sin da subito un primo appuntamento.

Il suo approccio iniziale era sempre lo stesso. Chiedeva agli interessati di essere invitato, tanto per cominciare, a cena a casa loro e a seguire chiedeva anche di potere trascorrere una prima notte fra le mura domestiche. Questo gli permetteva, in un colpo solo, di ottenere una gran quantità di informazioni sull’alimentazione, le relazioni fra i componenti della famiglia, la gestione delle attività di giorno e di notte, l’ambiente all’interno del quale la famiglia viveva e molto altro ancora.

Fu fissato un appuntamento. Il giorno dell’appuntamento Giovanni si accinse a raggiungere la casa in cui viveva la famiglia. Era già quasi buio ed ebbe notevoli problemi a districarsi all’interno del labirinto costituito dalle innumerevoli viuzze di campagna, deturpate da una follia paraurbanistica anni settanta, che conducevano alla casa. Arrivò infine che il sole era quasi tramontato. Girato l’ultimo angolo, con grande sorpresa, si rese conto che davanti a lui si apriva un grande spazio verde attraverso il quale era impossibile vedere altro segno di presenza umana che non fosse la casa a due piani dove viveva la famiglia che lo avrebbe ospitato.

Fu accolto in casa dal sincero benvenuto della madre, l’irruento entusiasmo del piccolo, la scontrosa curiosità del grande e il sospetto malcelato del padre.

L’atmosfera si riscaldò subito. Le battute e i pasticci dei bambini, la cucina deliziosa della madre, il vino offerto con generosità dal padre che nel frattempo si era sciolto un po’ (Giovanni alla fine era una persona che ci sapeva fare), alcuni aneddoti sui suoi pazienti raccontati da Giovanni che sull’etica professionale aveva un’idea tutta sua, contribuirono a rendere la serata informale e divertente.

Nel frattempo Giovanni però, con la parte “profit” del suo cervello, parte che aveva imparato a mantenere sempre attiva, raccoglieva dati sulla famiglia che potessero servirgli poi a preparare il protocollo per il padre.

Molte cose gli saltavano agli occhi e tutte contribuivano a definire un immagine abbastanza singolare e a tratti surreale di questa famiglia.

Fra tutte, inevitabilmente, una che lo colpì immediatamente fu quella relativa al luogo nel quale si svolgeva la cena e che la famiglia gli presentò subito come la Bibliocucina. La commistione fra i libri e il cibo era veramente eclatante per un’estraneo come lui, mentre i componenti della famiglia sembravano non accorgersene per nulla. Decise che era li che avrebbe cominciato la ricerca che sperava l’avrebbe condotto a trovare soluzioni al problema del padre.

Quando la cena stava per finire la moglie gli disse che per la notte avevano preparato per lui la camera dei bambini e che questi (ovazione dei due) avrebbero dormito al piano di sopra nel lettone genitoriale. A quel punto però Giovanni li stupì tutti dicendo che avrebbe preferito passare quella notte in cucina, approfittando del divano, per ragioni che avrebbe spiegato poi. La richiesta fu esaudita senza commenti o domande. Giovanni infatti aveva la sensazione che in quel luogo fosse contenuta la chiave del mistero dell’impossibile dimagrimento del padre.

La famiglia si ritirò al piano di sopra e Giovanni si distese sul divano e chiuse gli occhi. Aveva intenzione di riposare qualche minuto, riprendersi dalla cena e aspettare che i rumori sopra si quietassero. Improvvisamente riaprì gli occhi. L’orologio sulla parete segnava le 3 di notte. Si rese conto che complici il cibo e il vino si era addormentato. Saltò quasi a sedere, una cosa del genere non gli era capitata mai. La casa era avvolta nel silezio della campagna. Ombre di alberi e foglie provenienti dal girdino ricamavano le pareti della bibliocucina. Improvvisamente si rese conto che qualche cosa di strano proveniva dai libri disposti all’interno degli scaffali. Una sorta di luniscenza verdastra trapelava dalle pagine di alcuni libri. Li per li pensò che si trattasse di un illusione ottica prodotta dal vino e dalla singolarità della situazione nella quale si trovava. Ma poi una nuvola coprì la luna e la stanza si immerse in un buio più denso. La luminiscenza allora diventò più evidente. Sembrava proprio che alcuni libri emanassero una di quelle luci prodotte da certi funghi che crescono ai piedi di alcuni agrumi o dal plancton a mare in certe notti d’estate.

Non poté resistere. Si alzò ed estrasse dallo scaffale il primo libro che gli capitò a tiro. Al buio non riusciva a distinguere né il titolo, né l’autore.

Lo aprì. Subito dalle pagine cominciò ad emanare una voluta di fumo verdastro, una sorta di ectoplasma composto in parte da parole e in parte da immagini tridimensionali. Al centro della stanza adesso una grande pentola simile ad una nuvola borbottava, da essa altro fumo verde veniva fuori e lo raggiungeva alle narici. Parole si disegnavano nell’aria: “le verdure devono cuocere con il minestrone e non contro il minestrone”. Il fumo portava verso di lui un odore delizioso. Quasi per gioco allungò la mano verso un cucchiaio che si era materializzato sul bordo della pentola: con stupore si rese conto che riusciva ad impugnarlo. Lo immerse nel fumoso contenuto della pentola, lo estrasse e follemente lo portò alla bocca. Un sapore pieno, intenso, ricco lo riempì. Era delizioso. Incredulo e un po’ impaurito chiuse il libro. La luminiscenza proveniente dagli altri intanto sembrava crescere.

Estrasse un altro libro. Le volute di fumo che da esso vennero fuori composero questa volta il banco di un bar. Un ventilatore girava sul soffitto. Un uomo corpulento sedeva a quel banco girato di spalle. Accanto a lui sul bancone un calice triangolare, ricoperto da gocce gelate. Completamente perso in quella situazione allucinatoria Giovanni allungo la mano e prese il calice. Lo portò alla bocca. Senti subito il sapore dolce dello zucchero di canna e poi l’asprezza della lima, la forza del rum, distinse persino l’aroma quasi medicinale delle gocce di angostura. Sulle spalle dell’uomo comparvero delle parole, come fossero tatuate: “E tu come stai, vecchia casa dell’amore di sempre?”. L’immagine cominciò a disfarsi.

Giovanni chiuse il libro e ne estrasse immediatamente un altro dal quale proveniva una luce rossastra. Lo aprì. Il mare apparve davanti a lui. E lui era seduto davanti a quel mare. E il mare gli sembrava quello che unisce la Sicilia all’Africa, il mare della sua infinazia. E davati a lui il fumo rossastro componeva tutta una teoria di cibi: sarde a beccafico, seppioline fritte, triglie di scoglio in un sugo denso, spaghetti al nero. Non c’erano posate. Immerse le mani in quei cibi. Li portò in bocca come fosse fumo che viene dallo sciogliersi del ghiaccio secco. Ma in bocca erano altro che fumo. I sapori si mischiavano in un armonia perfetta. Gli parlavano della sua infanzia, lo riportavano a quel tempo e fra le braccia di chi non c’era più.

Un altro passo verso la libreria, un altro libro. Dalle pagine schizzarono fuori pasticcini, torte, sfoglie d’ogni tipo, farcite con creme succulente, guarnite con frutta freschisima. E da esse assieme a quelle deliziose creme, rumore di spade che cozzavano le une contro le altre e parole: “…e disdegnando d’essere l’ellera parassita, pur non la quercia essendo, o il gran tiglio fronzuto salir anche non molto, ma salir senza aiuto!”. Giovanni si nutrì a piene mani di quei dolci, le parole nutrirono contemporaneamente il suo cuore e la sua mente.

Ancora un altro libro, anche da questo proveniva una luce tenue e al tempo stesso una specie di rombo. Il fumo che uscì da esso delineò il contorno di una strana fabbrica. Nel cortile di questa potè intravedere un bimbo e un uomo che indossava un cilindro, passeggiavano mano nella mano. Poi il rombo si fece più forte e da dietro la fabbrica Giovanni vide arrivare un enorme onda marrone, un’onda colore ciccolata. L’onda lo travolse, Giovanni cadde supino. La ciccolata lo travolse, gli riempì gli occhi, le orecchie, il naso e soprattutto la bocca. Bevve come si bevono le parole dette dalle persone che si amano, bevve come si beve un libro che ci entusiasma, come per il libro Giovanni sperò che l’onda di cioccolata non finisse mai. Ma l’onda piano scemò. Giovanni zuppo di cioccolata si alzò.

Un ultimo libro risplendeva al centro della libreria. Stravolto ed ansante lo prese in mano e lo aprì. Questa volta del fumo giallognolo venne fuori dale pagine. Fili di fumo si mossero verso il centro della stanza a comporre prima una sfera, poi la sfera si allungò e si assottiglio alle punte. Giovanni riconobbe subito la forma che si stava componendo al centro della stanza. Era la forma del suo biscotto preferito, il piccolo regalo che sua nonna gli faceva ogni volta che andava a trovarla: una madeleine. Giovanni fece due passi e immerse il volto nel gigantesco biscotto e lo morse. E tutto, proprio tutto fu davanti ai suo occhi, dentro la sua mente. Un esplosione di dolci, di cibi fumanti, di parole confuse, di pagine di libro, di versi, di immagini. Un’esplosione di ricordi sembrò polverizzargli il cervello, poi tutto si ricompose in un’unica immagine: lui da piccolo sulle gambe della nonna che gli leggeva un libro mentre lui sgranocchiava il suo biscotto.

E Giovanni nello stesso secondo capì perché il padre non avrebbe mai potuto dimagrire fino a quando fosse rimasto nella bibliocucina: in quella stanza le parole e il cibo si fondevano in maniera indistinguibile, in quella casa anni di convivenza fra il cibo e i libri avevano impregnato questi ultimi di tutti gli odori e i profumi provenienti dai manicaretti preparati dalla madre e al tempo stesso il cibo era condito dalle parole, reso più gustoso dalle storie, salato con i granelli dei riti familiari. Bastava aprire un libro per avere la sensazione e le calorie che derivavano da un pasto. Bastava mangiare un piatto per incontrare un personaggio, per vivere una storia.

Giovanni capì che l’unica soluzione al problema del padre era quella di abbandonare la sua bibliocucina, la sua casa ma sapeva al tempo stesso che lui non sarebbe mai stato capace di chiederglielo. Poi ad un tratto, ricoperto di cibo fino ai capelli, svenne.

Quando l’indomani mattina la famiglia si svegliò, si preoccupò un poco perchè dal piano di sotto non proveniva alcun suono. Quando scesero le scale ed entrarono nella bibliocucina una scena incredibile si presentò ai loro occhi. Giovanni, al quale notte tempo era cresciuta un’enorme pancia, giaceva disteso in una pozza di cioccolata dalla quale emergevano bignè e triglie. Temettero che fosse morto. Solo il sommesso russare li rassicurò un poco. La madre si avvicinò a lui e cominciò a ripulirgli il volto con uno strofinaccio. Giovanni aprì un occhio, li guardò con aria suina e disse: “ho scoperto il segreto della bibliocucina” e poi aggiunse “lasciatemi solo dormire ancora un po’ perché ho bisogno di digerire qualche idea”. Si girò su un fianco e tornò a ronfare beatamente.

 

20 pensieri su “La Bibliocucina

  1. meraviglioso, splendido, fantasmagorico racconto.
    Dentro c’e’ tutto il nostro vissuto siciliano con l’amore per il cibo sano e la famiglia

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  2. Tutto mi fa pensare che nel nostro fare sempre un po’ “a muzzo” si creano (non sempre, detto con sincerità) cortocircuiti magici ed unici.

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