Era il 1991 e qualcuno trovò il modo per mandare, a mia insaputa, due mie poesie alla “VI Edizione Premio Nazionale di Poesia Baronessa di Carini” (ameno comune dell’interland palermitano nel quale sarei andato a vivere quindici anni dopo).

Vinsi il primo premio con la poesia che si intitola “Ho pregato“. Di seguito le motivazioni della giuria (che il Signore perdoni me e loro!!!): “Un nobile sentimento poetico e l’essenzialità delle immagini elaborano, tra rime alternate e baciate, ascesi intimistiche verso l’alto (n.d.r.: che se sono ascesi!!!),  per dimenticare un mondo distrutto da un turbine di ipocrisia“.

Fino a qui la cronaca.

Già però la motivazione del premio (un piattone in similargento che ancora conservo nel capanno degli attrezzi) avrebbe dovuto allarmarmi e prepararmi ad una lezione che non avrei mai dimenticato.

Invece niente. Mi avviai ignaro verso il disastro. Appena finita la cerimonia di consegna dei premi, infatti, si avvicinò a me un componente della giuria e dopo breve introduzione mi chiese: “ma esattamente il cardo quale simbolismo sottende?“. A distanza di 25 anni ricordo con immutata angoscia il sudore che mi scorreva lungo la spina dorsale. Come potevo dirgli che avevo scelto la parola “cardo” solo perché faceva rima con “tardo”?

Indelebile d’altra parte è la lezione imparata quel giorno. Una volta che ti decidi a comunicare e soprattutto se lo fai in forma poetica (la vaghezza di leopardiana memoria) allora offri inevitabilmente “la tua opera” alla libera interpretazione del tuo lettore. Quello se ne impossessa e si sente in diritto di farci quello che vuole. E ha pure ragione.

Anni dopo avrei sofferto della stessa sensazione di “sottrazione” quando, durante un corso di scrittura creativa (per il resto l’unico della mia vita), la mia Maestra Beatrice Monroy decise di fare leggere un mio racconto (io sono assolutamente incapace) al mio amico Marco Pomar (dotato di ben altre capacità interpretative). Assistetti ad uno scippo in piena regola. Marco usò toni, uso sfumature nella lettura che fecero venire fuori cose che io neanche vagamente avevo immaginato di consegnare alle parole del mio testo. In una sola lettura ne fece una “cosa sua”. Giurai allora che nessuno più avrebbe letto a voce alta un mio racconto (almeno in mia presenza)!

Ma adesso…ecco la poesia “incriminata”:

HO PREGATO

Ho pregato il Signore

Nelle ore che precedono il giorno

Perché mi conceda il ritorno,

Perché mi conceda il perdono

Ed il dono che mi sono tolto,

Che da stolto ho gettato

Nei pozzi della vita

Perdendo una partita

Che non ricordo di aver giocato.

 

Ho pregato il Signore

Nel pomeriggio tardo,

Quando sui monti della terra mia

Il vento agita il papavero e il cardo,

Chiedendo che mi dia tempo

Perché sono lento a capire,

A sbrogliare le spire

Di questa storia vecchia e sporca,

Di questa cosa storta ed infinita

Che forse è carne, che forse è oro

Ma che non è mai vita.

 

Ho pregato il Signore

Perché ci riporti all’ombra dei pini

E aprendoci gli occhi,

Ridendo del nostro stupore,

Ci dica che siamo di nuovo bambini.

Un pensiero su “Attenzione ai borseggiatori…e agli interpreti!

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